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E' tempo di un nuovo paradigma: un modello di sostenibilità economico-sociale per il governo delle migrazioni

It’s time for a new paradigm: towards a sustainable socio-economic model in migration management

Riassunto

Nell'esperienza europea, le migrazioni economiche sono state tradizionalmente regolate in base a un principio di complementarietà tra manodopera autoctona e immigrata. Funzionale ad assecondare i fabbisogni contingenti del mercato del lavoro, questo approccio ha però provocato la "naturale" concentrazione dei lavoratori stranieri nei gradini più bassi della gerarchia professionale e, nel tempo, una condizione di svantaggio strutturale per gli immigrati e i loro discendenti. Oltre che confliggere con i principi antidiscriminatori sui quali si fondano le civiltà europee, questi fenomeni rappresentano, nell'attuale scenario demografico, una posta in gioco decisiva per la competitività dell'economia e la sostenibilità del modello sociale europeo.

Parole chiave:
mercato del lavoro; discriminazione; diritti sociali; politiche migratorie

Abstract

In the European experience, economic migrations have been traditionally regulated according to a complementarity principle among native and migrant labor offer. This kind of approach has been useful in satisfying contingent labor needs; at the same time, it has produced a ‘natural’ segregation of foreign workers in the lower ladders of the professional hierarchy and, the time passing, a condition of structural disadvantage for migrants and their offspring. Besides conflicting with anti discrimination principles on which European civilization is founded, these phenomena constitute, in the current demographic scenario, a crucial challenge for both economic competitiveness and the sustainability of the European social model.

Keywords:
labour market; discrimination; social rights; migration policies

1. Un po' di storia per comprendere il presente

All'indomani del secondo conflitto mondiale, i Paesi europei conobbero la loro transizione migratoria e sperimentarono su larga scala dispositivi istituzionali per il reclutamento di manodopera dall'estero. È dunque nel contesto dei "trent'anni gloriosi", la lunga fase espansiva delle economie occidentali, che si radicano le origini del modello europeo di governo delle labour migrations. Un modello la cui figura paradigmatica è il gastarbeiter, il "lavoratore ospite" che, come si evince appunto da questa espressione, è innanzitutto lavoratore - definito come tale, più che come persona - e in secondo luogo ospite, vale a dire destinato a una permanenza solo temporanea, come evoca l'eufemistica espressione di "integrazione provvisoria", che sintetizza le aspettative delle società di ricezione. L'importazione di manodopera, necessaria a sostenere cicli produttivi ad alta intensità di lavoro, era equiparata a quella di qualunque altro fattore produttivo, e spesso regolata mediante intese bilaterali attraverso le quali gli Stati d'origine e quelli di destinazione ambivano a raggiungere il "felice" equilibrio ipotizzato dalla teoria degli eccessi. Il trasferimento di forza lavoro doveva, infatti, correggere gli squilibri tra i Paesi con un eccesso di disoccupazione, e la necessità d'esportarne i costi, e quelli con un eccesso di posti di lavoro, e l'esigenza di contenere i salari. Quasi appunto che l'immigrazione potesse essere ridotta a un serbatoio di lavoro a buon mercato. Emblema di questa vicenda è un protocollo come quello sottoscritto nel 1946 tra Belgio e Italia, col quale 50.000 "braccia" da impiegare nel duro lavoro nelle miniere erano cedute in cambio di carbone. Fu la tragedia di Marcinelle, consumatasi l'8 agosto 1956, in cui morirono centinaia di minatori, in maggioranza italiani, a portare alla luce le condizioni dei migranti e ad aprire il dibattito internazionale sulle norme di sicurezza del lavoro nelle miniere. E, tuttavia, la considerazione per il loro lavoro e le loro vite, in un'Europa inebriata dal "miracolo economico", traspare chiaramente dalla sentenza con la quale il tribunale pose fine alla vicenda, assolvendo cinque dei sei imputati e condannando il sesto a 6 mesi con la condizionale!

Certo è che, benché non siano mancate reazioni xenofobe da parte dell'opinione pubblica nei confronti degli immigrati "che ci tolgono il lavoro", in quella che possiamo definire la fase fordista delle migrazioni, queste ultime erano interpretate come un fenomeno rispondente agli interessi dei Paesi di destinazione, che si riservavano il diritto di rimpatriare i migranti nel momento in cui non vi fosse più stato bisogno di loro. Inoltre, l'immigrazione era ben lontana dall'avere la rilevanza "pubblica" che ha oggi in Europa - in un contesto di forte politicizzazione e sovraesposizione mediatica di questo tema -: rappresentarla alla stregua di una questione esclusivamente economica e con una natura temporanea permetteva infatti alle società europee di eludere il problema dell'inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza, e a maggior ragione quello del suo impatto sull'identità di società - come appunto le città europee - abituate a pensarsi come etnicamente e culturalmente omogenee.

Tra la fine degli anni '1960 e l'inizio del decennio successivo, nella scia della pesante crisi economica che aveva fortemente ridotto il fabbisogno di manodopera, in tutti i Paesi europei i dispositivi di reclutamento cedettero il passo alle cosiddette "politiche degli stop". Da questo momento, proprio mentre prendeva forma il progetto di un mercato unico europeo, l'immigrazione d'origine extra-europea diverrà succube di una "ortodossia restrittiva", che sarà rimessa timidamente in discussione solo all'inizio del nuovo millennio, quando si riaprirà il dibattito sulla necessità di politiche migratorie attive2 2 Cf. in particolare la Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione [COM (2000), 757 finale] nella quale si segnala come le politiche d'immigrazione "zero" non fossero più adeguate, alla luce del contesto economico e demografico dell'Unione, e come fosse necessario regolare la crescente pressione migratoria in modo da massimizzarne gli effetti positivi per l'Unione, per gli immigrati stessi e per i Paesi d'origine. .

Oltre ad aver sostanzialmente azzerato le possibilità d'ingresso (legale) per i migranti economici, questa svolta nelle politiche migratorie segnò un vero e proprio spartiacque nella vicenda europea, inaugurando una fase nella quale le migrazioni internazionali assumeranno il carattere di presenze "non volute" e sempre più autonome dalle politiche di reclutamento attivo, ovvero sempre più indipendenti dalla capacità di pianificazione. A dispetto delle ambizioni restrittive, l'immigrazione ha però continuato a crescere, e con essa la presenza di lavoratori immigrati. Per comprenderne le ragioni occorre considerare, congiuntamente, il ruolo del mercato - con il suo insaziabile fabbisogno di lavoro immigrato, specie di lavoro "povero" e iperadattabile, necessario ad assecondare le esigenze di flessibilità e di riduzione dei costi di produzione che hanno accompagnato la transizione al post-fordismo delle economie europee - e il ruolo dei diritti - un concetto molto radicato nella cultura europea, e che ha finito per influire non solo sul trattamento degli immigrati, ma anche sulle possibilità d'ingresso, nonostante, appunto, le ambizioni restrittive -.

In primo luogo, sebbene il volume dei ritorni in patria non fu affatto trascurabile, milioni di immigrati "a tempo determinato" optarono per un insediamento definitivo. In molti casi, gli "ospiti" degli anni '1950 e '1960 divennero così i residenti permanenti degli anni '1970 e '1980, gettando le basi per la formazione di comunità immigrate e minoranze etniche visibili.

A sua volta, la convinzione che la manodopera immigrata dovesse svolgere una funzione di "ammortizzatore" rispetto agli andamenti dell'economia, entrerà definitivamente in crisi nel momento in cui una quota crescente di lavoratori immigrati finì col ritrovarsi disoccupata dopo essere stata espulsa dai processi produttivi. Anche laddove era esistito un ampio consenso verso l'importazione di manodopera, la crisi occupazionale ebbe l'effetto di far esplodere il risentimento verso una presenza che ci si rendeva conto essere ormai permanente. Quella dell'immigrato disoccupato e assistito dal welfare divenne, per certi aspetti, la figura emblematica di questa nuova fase, soppiantando l'idealtipo del migrante operaio alla catena di montaggio. Ma, pur scongiurando il rischio di caduta in una condizione di povertà estrema, le protezioni offerte dai sistemi di welfare hanno concorso a rendere le famiglie immigrate vulnerabili e poco incluse socialmente, compromettendo anche le prospettive delle seconde generazioni, e rendendo l'opinione pubblica riottosa verso la prospettiva di riaprire le frontiere ai migranti economici. Per tale ragione, anche dopo aver liquidato l'"opzione zero", gli schemi migratori adottati dai vari Paesi hanno mantenuto un'impostazione fortemente selettiva, consentendo l'ingresso di contingenti limitati di lavoratori stranieri e favorendo specifiche categorie professionali3 3 OECD. Making Integration Work. Refugees and others in need of protection. Hanno fatto eccezione, fino al principio della recessione, i Paesi dell'Europa Sud, che hanno autorizzato l'ingresso di sostenuti contingenti di immigrati. . In tal modo, nonostante la capacità attrattiva che le economie europee hanno continuato a esercitare nei confronti dell'immigrazione, le scelte di politica migratoria hanno contribuito a far crescere la componente inattiva della popolazione - oltre che, per certi versi, la componente irregolare -.

La chiusura delle frontiere alle migrazioni da lavoro, infatti, non determinò la fine dei flussi, bensì la loro trasformazione, con l'imponente crescita degli ingressi per ragioni familiari e umanitarie (nonché delle migrazioni irregolari, un fenomeno che ha interessato tutti gli Stati europei, ma in particolare i "nuovi" Paesi d'immigrazione del Sud Europa). Oltre a produrre una significativa crescita della componente inattiva - al punto da scardinare il teorema del presunto vantaggio dell'immigrazione per le economie europee -, queste tipologie d'ingresso generano un'offerta di lavoro aggiuntiva che, per le sue caratteristiche, costituisce una delle componenti più vulnerabili dei mercati del lavoro (com'è attestato dalla forte esposizione al rischio di disoccupazione e "cattiva" occupazione), ma al tempo stesso un involontario strumento di dinamiche involutive e fenomeni di dumping sociale.

Infine, la crescita, sostenuta e ininterrotta, della popolazione immigrata, ha posto le società europee di fronte a tutte le sfide di ordine culturale, politico e finanche identitario generate da una presenza così cospicua da modificare, in modo irreversibile, i caratteri "ereditari" della popolazione residente. E si tratta di un ulteriore elemento del quale tener conto nell'analisi delle politiche (o delle "non politiche") che regolano l'accesso al mercato del lavoro europeo e al sistema dei diritti. È stata soprattutto la comparsa sulla scena pubblica delle seconde generazioni (i giovani issus dell'immigration, come li hanno definiti gli studiosi francesi, proprio per sottolineare come essi portino impresse, nella loro biografia, le conseguenze della propria storia familiare) a segnare un passaggio irreversibile nei rapporti tra comunità immigrate e società europee. La loro transizione all'età attiva ha, infatti, consegnato al mercato del lavoro europeo altrettanti "figli illegittimi", come li ebbe a chiamare A. Sayad4 4 SAYAD Abdelmalek. La doppia pena del migrante. Riflessioni sul "pensiero di Stato". , di una società che aveva voluto gli immigrati per la sua "prosperità", ma che ora scopriva di non aver bisogno della loro "posterità"; o, quanto meno, scopriva di dover fare i conti con tutte le sfide illusoriamente lasciate in sospeso dal mito della temporaneità.

Come vedremo nel successivo paragrafo, nonostante i molteplici sforzi profusi dalle società europee per favorire l'integrazione degli immigrati e dei loro discendenti - a livello istituzionale e per iniziativa della società civile, troppo spesso impropriamente rappresentata solo attraverso il registro della paura e della chiusura5 5 ZANFRINI, Laura. Il Dilemma Europeo. L'Europa della paura e l'Europa della speranza -, la discriminazione continua, per molti versi, a rappresentare la cifra distintiva della loro condizione. Ma, nel quadro di un'Europa chiamata a gestire le conseguenze di un inarrestabile processo d'invecchiamento, è proprio il loro peso demografico a rendere il destino lavorativo degli immigrati (e dei loro figli) una posta in gioco decisiva per la competitività dell'economia e la sostenibilità del modello sociale europeo6 6 Per un approfondimento della questione si rimanda a ZANFRINI, Laura. Introduzione alla sociologia delle migrazioni. .

2. Una condizione di svantaggio strutturale

Nell'epoca della globalizzazione, così come in tutte le economie sviluppate, anche in Europa il mercato del lavoro presenta una composizione sempre più tributaria dell'immigrazione. Nel complesso degli attuali 28 Paesi dell'Unione europea7 7 Destinati a scendere a 27 con la prevista uscita del Regno Unito. , gli attivi stranieri sono passati, tra il 20028 8 Primo anno per il quale il dato è disponibile. e il 2015, da poco meno di 10 milioni a oltre 18. Di questi, il 45,4% proviene da un altro Paese UE diverso da quello di residenza, e la restante quota (quasi 10 milioni) da un Paese extra-UE. Ancorché il possesso della cittadinanza europea non sia di per sé un antidoto al rischio di divenire vittima della discriminazione, l'essere o meno cittadino dell'Unione costituisce un discrimine fondamentale nei sistemi di stratificazione civica che regolano l'accesso ai diritti influendo, in particolare, sulla possibilità di circolare all'interno del mercato unico europeo e di ottenere il riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche professionali acquisiti all'estero. Inoltre, nel misurare l'impatto dell'immigrazione sui mercati del lavoro europei, occorrerebbe considerare anche la componente, di tutto rispetto, che si è nel tempo naturalizzata, "sparendo" dalle statistiche.

Anche i dati più recenti confermano come il continente europeo sia uno dei principali poli d'immigrazione a livello internazionale9 9 OECD, op. cit. ; la sua capacità attrattiva è anzi ormai superiore a quella delle più antiche nazioni d'immigrazione (come Stati Uniti e Canada), ed è rapidamente tornata sui livelli precedenti la crisi, nonostante quest'ultima abbia prodotto conseguenze drammatiche sulla situazione occupazionale di diversi Paesi europei (in particolare di alcuni dei Paesi che erano stati i principali importatori di manodopera negli anni precedenti la crisi, come la Spagna e l'Italia).

I tassi di attività degli immigrati - come del resto i tassi di occupazione - sono peraltro molto variabili da uno Stato all'altro. Oltre a dipendere dalle "condizioni di salute" delle singole economie, essi riflettono la storia migratoria di ogni Paese - così che soltanto nelle nazioni di più recente immigrazione gli stranieri registrano livelli di partecipazione al mercato del lavoro più elevati dei locali, mentre di norma avviene il contrario -, sia la composizione delle comunità immigrate. In termini complessivi, nell'insieme dei Paesi dell'Unione europea, il tasso di attività è pari al 77,3% per gli autoctoni e al 74,8% per gli stranieri; quest'ultimo dato, però, è l'esito di comportamenti diversi da parte, rispettivamente, dei residenti stranieri ma di cittadinanza europea (che registrano un tasso pari all'81,6%, ovvero addirittura superiore a quello degli autoctoni) e dei non-europei (per i quali il tasso precipita al 69,8%). In particolare, a destare preoccupazione sono i bassissimi tassi di attività delle donne immigrate di alcune nazionalità, e l'elevata incidenza di NEET - Not (engaged) in Education, Employment or Training - che si registra tra i giovani con un background migratorio, ancora più elevata di quella, già di per sé drammatica, che caratterizza i giovani europei tra i 15 e i 29 anni. Quasi un giovane straniero su 4 (più precisamente il 23%) si trova in questa condizione, rispetto al 14,7% dei coetanei autoctoni (dati di fonte Eurostat riferiti al 2014). Ma in alcuni tra i principali Paesi d'immigrazione, il differenziale negativo si fa ancora più accentuato. Così, in Germania, si passa dal 7,4% di NEET tra i giovani tedeschi al 13,5% fra quelli stranieri; in Francia dal 13,5% al 25,9%; in Belgio dal 12,8% al 24,8%, mentre la situazione, per gli uni e per gli altri, è ancor più desolante nei Paesi dell'Europa meridionale: in Italia non studia né lavora il 25,1% dei giovani italiani e il 34,7% degli stranieri; in Spagna il 18,8% degli spagnoli e il 33,2% degli stranieri; in Grecia addirittura il 25,7% e il 36,6%. Quanto alla componente femminile, ci limitiamo a segnalare come se il tasso di attività delle donne è in genere inferiore a quello degli uomini, il differenziale negativo si fa ancora più evidente per le donne straniere, in particolare per quelle extra-europee: queste ultime, infatti, soffrono di un gender gap pari addirittura a 25 punti percentuali. Oltre a confliggere con l'obiettivo di accrescere i tassi di attività e di occupazione nei Paesi dell'Unione, il fenomeno della scarsa partecipazione ai mercati del lavoro di queste componenti dell'immigrazione preoccupa per le sue possibili ripercussioni sui processi d'integrazione, poiché non di rado s'accompagna a situazioni di marginalità sociale e (auto)segregazione; la stessa "svolta integrazionista" nei modelli di gestione della convivenza interetnica10 10 JOPPKE, Christian. Transformation of Immigrant Integration: Civic Integration and antidiscrimination in The Netherlands, France, and Germany. troverebbe ragione, secondo alcuni studiosi, proprio in questo tipo di timore.

In ogni caso, oltre al numero di residenti e di lavoratori stranieri, è cresciuto anche quello degli occupati che (limitandosi ai lavoratori dipendenti) è passato da circa 8,5 milioni nel 2002 a oltre 15 milioni nel 2015. Di questi, poco più della metà sono cittadini non comunitari e quasi il 97% si concentra nei Paesi dell'Unione a 1511 11 Ovvero Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia. . D'altro canto, l'importanza del lavoro degli immigrati, in un continente investito da profondi processi di declino demografico e da persistenti squilibri tra domanda e offerta di lavoro, è ormai unanimemente riconosciuta. I dati ci dicono però di una condizione di svantaggio strutturale di cui i lavoratori stranieri sono vittime. Nonostante i significativi migliorament i registrati negli anni che hanno preceduto l'inizio della crisi, gli immigrati continuano, infatti, a incontrare numerose difficoltà sul loro sentiero d'integrazione nella società e nel mercato del lavoro europei; la più lunga crisi economica dal dopoguerra le ha anzi esacerbate e, nel quadro di complessivo peggioramento della situazione occupazionale e della qualità dell'occupazione, in molti Paesi gli immigrati hanno addirittura visto crescere i differenziali negativi nei confronti degli autoctoni.

I dati (Eurostat, 2015) ci dicono, in primo luogo, che i lavoratori stranieri sono maggiormente esposti al rischio di disoccupazione. Il loro tasso di disoccupazione (14,8%) è di oltre sei punti percentuali superiore a quello degli autoctoni (8,7%); la componente extra-europea risulta inoltre fortemente penalizzata, tanto che il relativo tasso raggiunge addirittura il 18,9%. Tra i disoccupati extra-UE, inoltre, la quota di disoccupati di lunga durata arriva addirittura al 51,2%. Quanto alle donne immigrate, si ritrovano spesso penalizzate sia nel confronto coi connazionali, sia in quello con le donne autoctone, in conseguenza del fenomeno della discriminazione intersezionale, effetto cumulativo degli svantaggi legati al genere (femminile), all'origine etnico-nazionale e al fatto di essere straniere. Ancora una volta, è la componente extracomunitaria a soffrire maggiormente: il tasso di occupazione delle donne extra-UE (46,7%) è non solo di oltre 20 punti percentuali inferiore a quello degli uomini extra-UE (67,4%), ma è anche quasi altrettanto distante da quello delle donne autoctone (65,1%) o straniere ma europee (66,5%).

Un altro dato che emerge dalle statistiche è quello della segregazione professionale. Riflettendo le caratteristiche della domanda di lavoro immigrato, i lavoratori stranieri sono in genere sovra-rappresentati in alcuni settori - l'industria manifatturiera e delle costruzioni, il comparto alberghiero e della ristorazione, il settore sanitario e dei servizi sociali e, soprattutto, il lavoro domestico e di assistenza domiciliare -. Inoltre, poiché buona parte della domanda in questi settori riguarda mansioni a bassa qualificazione, gli immigrati sono decisamente sovra-rappresentati nei lavori poco retribuiti e con un basso status sociale, esattamente quegli impieghi "delle 4 D" (dirty, difficult, dangerous e demanding) che i lavoratori indigeni sono riluttanti a svolgere. Infine, gli immigrati - e ancor più le immigrate - sono sovente sovra-qualificati, cioè svolgono mestieri che richiederebbero un livello di qualificazione inferiore a quello posseduto12 12 HUDDLESTON, Thomas, DAG TJADEN, Jasper. Immigrant Citizens Survey. , un fenomeno speculare a quello del deskilling, ovvero dello sperpero e del depauperamento del loro capitale umano. Come conseguenza, quand'anche occupati, gli immigrati corrono un rischio di essere poveri 2,5 volte più elevato rispetto ai nativi con analogo livello di qualificazione13 13 HUDDLESTON, Thomas et alii. Migrant Integration Policy Index 2015. .

Gli studiosi hanno cercato di scandagliare le ragioni di queste performance differenziali. Esse hanno almeno in parte a che vedere con il capitale umano degli immigrati, giacché l'Europa tende a richiamare un'immigrazione complessivamente meno istruita rispetto alle mete tradizionalmente più capaci di attrarre "cervelli". Tuttavia, sono soprattutto i processi di costruzione sociale e istituzionale del mercato del lavoro degli immigrati a meritare la nostra attenzione. A tale riguardo possiamo innanzitutto osservare come, sebbene le discriminazioni legali che colpiscono i lavoratori stranieri (o alcune categorie di essi) siano sempre più rare, grazie ai progressi della legislazione e all'azione della magistratura, sussistono casi di discriminazione indiretta14 14 La discriminazione indiretta si verifica quando, ad esempio, si prevedono, per l'accesso ad alcuni profili professionali, dei requisiti (come una certa altezza) e dei divieti (come quelli d'indossare alcuni capi d'abbigliamento o simboli religiosi) non sempre giustificabili dalle caratteristiche del ruolo. e, soprattutto, sono relativamente diffuse le discriminazioni che sorgono dal funzionamento spontaneo del mercato del lavoro. Le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro - il fatto, in particolare, che i posti di lavoro vacanti si concentrano in determinati settori e mestieri -, unitamente alle caratteristiche dei canali d'accesso all'occupazione - basati prevalentemente su reti sociali e meccanismi informali di accreditamento - contribuiscono alla formazione di pre-categorizzazioni su base etnica, ossia alla tendenza a presumere che gli immigrati di una determinata origine vadano bene specialmente o soltanto per certi tipi di lavori (fino al punto di cristallizzarsi nel linguaggio, com'è ad esempio avvenuto col termine "filippina" che, in Italia, è diventato sinonimo della collaboratrice domestica).

Nelle loro strategie di reclutamento, i datori di lavoro, inoltre, adottano spesso un meccanismo di discriminazione statistica, ostacolando l'ingresso degli appartenenti a un determinato gruppo etnico che l'esperienza, diretta o indiretta, ha portato a ritenere meno affidabile; si può pertanto intuire come la contaminazione di alcuni gruppi con il mondo della devianza e della criminalità si traduca in una forte penalizzazione di tutti i loro membri. Un caso particolarmente eclatante è quello degli appartenenti alle minoranze rom e sinti, che scontano un pregiudizio negativo molto radicato in molti Paesi europei; ma anche il fatto d'indossare lo chador o altri simboli religiosi può risultare molto penalizzante quando si cerca un impiego, circostanza che contribuisce a spiegare perché le donne musulmane restino spesso escluse dal mercato del lavoro. Così come esempi ricorrenti di discriminazione sono la richiesta di standard particolarmente elevati di padronanza della lingua locale per svolgere lavori che di per sé non li necessiterebbero, o la tendenza a sottostimare i titoli di studio acquisiti nei Paesi d'origine dei migranti, ampiamente documentata dalla ricerca. Le stesse prove impiegate per selezionare i candidati, anche quando pretendono di essere obiettive, incorporano inevitabilmente elementi della cultura che le ha elaborate, col risultato di penalizzare, sia pure involontariamente, chi non condivide il medesimo background.

Infine, una forma particolarmente insidiosa di discriminazione all'ingresso è quella che si basa sul presunto grado di distanza culturale, un espediente ideologico che permette di "oggettivare" gli stereotipi, legittimando le pratiche discriminatorie15 15 VOURC'H, François, DE RUDDER, Veronique, TRIPIER, Maryse. Foreigners and Immigrants in the French Labour Market: Structural Inequality and Discrimination. . Negli ultimi anni, complice l'allarme sociale generato dai fenomeni di radicalizzazione e di recrudescenza del terrorismo, è proprio questo concetto ad alimentare i sentimenti anti-immigrati di una significativa parte dell'opinione pubblica europea, fino a sdoganare argomenti precedentemente monopolizzati dai movimenti dichiaratamente xenofobi.

Altrettanto diffuse le discriminazioni nei percorsi di carriera che ricalcano, per molti aspetti, questioni già emerse a proposito dell'esperienza delle donne lavoratrici, a partire dal problema del c.d. "soffitto di vetro".

Infine - e si tratta di uno dei fenomeni più interessanti - la discriminazione si produce a volte involontariamente da setting istituzionali monoculturali non attrezzati a gestire la diversità, che generano aspettative standardizzate, impedendo la valorizzazione delle competenze specifiche dei migranti e portando a trascurare i loro specifici bisogni16 16 ZANFRINI, Laura (a cura di). The Diversity Value. How to Reinvent the European Approach to Immigration. . In questi casi - così come negli altri sopra citati di discriminazione indiretta -, ci troviamo di fronte a fattispecie di discriminazione che, pur senza essere espresse e palesi (come avviene con la discriminazione intenzionale, fondata ad esempio su argomentazioni razziste), sono inscritte nel funzionamento "normale", nelle routine organizzative delle istituzioni europee (specie in quei Paesi che hanno tradizionalmente condiviso una concezione etnica dell'appartenenza), e sono pertanto ancor più difficili da individuare e combattere.

Rimasto a lungo nascosto ed esorcizzato, il problema della discriminazione ha negli ultimi anni fatto capolino nell'agenda pubblica di molti Paesi europei, perfino in quelli tradizionalmente più refrattari a riconoscere la rilevanza dei clivages etnici nella vita sociale17 17 Un caso particolarmente emblematico è quello della Francia, Paese che ha fatto dell'ideologia assimilatrice ed egualitaria la propria bandiera - fino al punto di vietare la raccolta di dati cassificati secondo l'origine etnico-nazionale -, ma che ha dovuto riconoscere l'esistenza di episodi quotidiani di "racisme au travail", come recita il titolo di un'inchiesta che destò molto scalpore (BATAILLE, Philippe. Le racisme au travail). . A proiettare il problema sulla scena pubblica è stata la transizione all'età attiva dei giovani di seconda generazione, per effetto del c.d. paradosso dell'integrazione: mentre i loro genitori, essendo confinati in ristretti ambiti occupazionali, restavano relativamente "invisibili", questi giovani s'indirizzano a una gamma ben più ampia di sbocchi lavorativi, ponendosi in una situazione in cui è molto più probabile divenire vittime del razzismo e della discriminazione18 18 WRENCH, John, REA, Andrea, OUALI, Nouria (a cura di). Migrants, ethnic minorities and the labour market. Integration and exclusion in Europe. . Evidentemente, le difficoltà d'inserimento non riguardano tutti i figli degli immigrati; tuttavia, la loro sovraesposizione al rischio d'esclusione lavorativa è tale da aver destato l'attenzione degli studiosi in molti Paesi, dando vita a un ricco filone di studi e ricerche. Da essi emerge come i nati da famiglie immigrate hanno spesso livelli di disoccupazione molto più alti della media (in Francia, per esempio, i giovani d'origine africana e turca hanno tassi fino a tre volte superiori) e, pur riuscendo spesso a emanciparsi dai "lavori da immigrati" dei loro genitori, si ritrovano a ricoprire profili di minore qualità rispetto ai membri della maggioranza, e a guadagnare di meno19 19 ALBA, Richard; FONER, Nancy. Strangers no more. Immigration and challenges of integration in North America and Western Europe. .

Sul fronte istituzionale, un notevole impulso alla prevenzione e alla lotta alla discriminazione è venuto dall'Unione europea, segnatamente con l'adozione di due fondamentali direttive, frutto anche delle pressioni di diverse organizzazioni non governative e di altre espressioni della società civile: la Direttiva del Consiglio 2000/78/CE e la Direttiva del Consiglio 2000/43/CEE. Quest'ultima, in particolare, copre ambiti molteplici e, specificamente, tutte le forme di discriminazione che possono presentarsi sul mercato del lavoro, incluse le molestie che producono un clima lavorativo intimidatorio, ostile, offensivo o sgradevole; inoltre, è stabilito che l'onere della prova spetti alla parte convenuta: per esempio, sarà il datore di lavoro (e non il lavoratore che s'è visto rifiutare la propria candidatura) a dover dimostrare che non v'è stato alcun trattamento discriminatorio. Per rendere efficace la normativa, la direttiva prevede, tra l'altro, che alle vittime siano garantiti mezzi adeguati di protezione legale, e impegna gli Stati membri ad assicurare un'adeguata informazione e ad attivare uno o più organismi indipendenti incaricati di analizzare i problemi, formulare raccomandazioni e fornire assistenza concreta alle vittime, anche dando seguito alle denunce.

A oltre un decennio dall'adozione di queste pietre miliari nella lotta alla discriminazione, e nonostante i significativi progressi nelle legislazioni nazionali realizzati grazie al loro recepimento (specie nei Paesi che già non possedevano una normativa in questa materia), le evidenze disponibili20 20 FRA. Opinion of the European Union Agency for Fundamental Rights on the situation of equality in the European Union 10 years on from initial implementation of the equalities directives. dimostrano come la discriminazione resti parte dell'esperienza quotidiana di molti cittadini europei e ancor più dei cittadini di Paesi terzi che abitano il territorio dell'Unione, ed è proprio quella collegata all'origine etnica la forma di discriminazione più diffusa. Basti pensare che addirittura il 27% delle persone appartenenti a una minoranza etnica dichiara di aver subito discriminazioni, e il mercato del lavoro è l'ambito più interessato a questo fenomeno. Gli sforzi fatti non sono stati finora in grado di diffondere una sufficiente consapevolezza delle potenzialità delle norme anti-discriminatorie, come dimostra il ricorso molto limitato alle azioni di denuncia, cui concorrono la scarsa consapevolezza, da parte delle vittime, dei loro diritti (solo il 25% degli immigrati e dei membri delle minoranze etniche sarebbe al corrente della legislazione in questa materia), l'ignoranza riguardo alle procedure da utilizzare e una diffusa convinzione riguardo alla scarsa utilità delle denuncie21 21 HUDDLESTON et alii, op. cit. .

Tuttavia, come approfondiremo nel successivo paragrafo, a neutralizzare gli effetti dei principi antidiscriminatori sono, in primo luogo, gli stessi processi di costruzione sociale e istituzionale dei migranti e del loro ruolo nel mercato del lavoro europeo. Prigionieri del loro imprinting iniziale, questi ultimi persistono, sia a livello politico-istituzionale, sia nelle aspettative dell'opinione pubblica, sia perfino attraverso gli argomenti usualmente impiegati dalla "lobby pro-immigrati", ad accreditare il diritto d'immigrazione sulla base di un bisogno di forza lavoro che riguarda, nella maggior parte dei casi, i lavori meno qualificati e a più basso gradiente sociale; ovvero quelli che, non per caso, sono spesso definiti proprio come i "lavori da immigrati".

3. La "schizofrenia" dell'approccio europeo

Definito come temporary labour model22 22 PAPADEMETRIOU, Demetrios G.; HAMILTON, Kimberly A. Managing Uncertainty: Regulating Immigration Flows in Advanced Industrial Countries. , il regime europeo di governo dell'immigrazione, così come istituzionalizzatosi negli anni del dopoguerra, conteneva in sé le ragioni per giustificare un trattamento differenziale - ovvero discriminatorio - dei "lavoratori ospiti". Oltre a stabilire uno stretto legame tra la condizione lavorativa e il diritto di soggiorno (suggellato da un permesso a tempo determinato), tale modello consentiva di legittimare un accesso limitato ai sistemi di protezione sociale, negando al contempo qualunque diritto politico (e, al principio, lo stesso diritto al ricongiungimento familiare). Nel manifestare tutta la loro "avversione" nei confronti della prospettiva di un insediamento stabile delle famiglie e delle comunità immigrate, la rassicurante figura del lavoratore ospite ha in tal modo consentito alle società europee di posporre il problema dell'inclusione dei "non-nazionali" nella comunità dei cittadini, tenendo per così dire artificialmente in vita quel principio di omogeneità della nazione sul quale si è fondato il processo di nation building degli Stati europei.

Al tempo stesso, però, tale approccio ha incoraggiato una "naturale" concentrazione degli immigrati negli strati più bassi della gerarchia professionale, gettando le basi di quella situazione di svantaggio strutturale che, come abbiamo visto, caratterizza gli immigrati e i loro discendenti. La discriminazione - nelle sue molteplici declinazioni - che segna la condizione degli immigrati in Europa non sarebbe dunque un incidente di percorso, e neppure l'esito di un'attitudine volutamente discriminatoria da parte dei principali attori della società europea (a partire dai datori di lavoro). Essa sembrerebbe piuttosto la logica conseguenza di quel principio di complementarietà tra lavoro autoctono e immigrato che sta al cuore dei processi di costruzione istituzionale del ruolo dei migranti. Un principio tanto radicato nel sentire comune degli europei al punto da essere costantemente evocato perfino dalle forze politiche e culturali maggiormente favorevoli all'immigrazione: "gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare".

Scendendo più nel dettaglio, nei Paesi europei la regolazione delle migrazioni economiche si è storicamente avvalsa di diversi schemi procedurali, variamente combinati, accomunati dall'obiettivo di soddisfare i posti di lavoro vacanti: la fissazione di un contingente annuale di ingressi, l'identificazione dei profili professionali per i quali è ammesso il ricorso a lavoratori provenienti dall'estero, la subordinazione degli ingressi all'applicazione del "principio d'indisponibilità"23 23 Tale è il principio secondo il quale l'ingresso di un lavoratore straniero è consentito solo se non vi è alcun lavoratore indigeno o comunque già residente disponibile a ricoprire il posto di lavoro per il quale si richiede l'autorizzazione all'ingresso. . Questi metodi hanno certamente favorito il riequilibrio tra domanda e offerta di lavoro, soddisfacendo i fabbisogni di manodopera per i quali non vi è un numero sufficiente di lavoratori disponibili; al tempo stesso, però, essi hanno finito per classificare quei lavori che l'offerta autoctona non è in genere disponibile a svolgere, rafforzando la segmentazione del mercato del lavoro attraverso clivage definiti secondo l'origine etnica e nazionale. Lasciando sostanzialmente ai datori di lavoro la facoltà di controllare il processo di reclutamento, i lavoratori immigrati sono stati massicciamente dirottati verso un numero ristretto di settori e figure professionali, producendo, come abbiamo descritto, vistosi fenomeni di segregazione occupazionale. Registrabili nella maggior parte dei Paesi europei, tali processi sono ancor più esacerbati in quelli che hanno fatto maggiormente ricorso a regolarizzazioni di massa per consentire l'emersione degli immigrati che avevano avuto accesso al mercato in modo illegale, assecondando in maniera ancor più tangibile la richiesta di lavoro "povero" e a buon mercato.

Tutto ciò ha concorso al consolidamento di una percezione dei migranti come risorsa strumentale e contingente: tra le altre conseguenze, si può osservare come i migranti non siano stati incentivati a investire nel loro capitale umano - attraverso, ad esempio, il miglioramento delle competenze linguistiche, la riqualificazione professionale, il riconoscimento dei titoli acquisiti all'estero - e come le imprese non siano state incoraggiate a mettere a frutto la "diversità" di cui questi lavoratori sono portatori. Inoltre, si è favorita l'affermazione di un modello d'integrazione fortemente sbilanciato sulla dimensione lavorativa, alimentando una concezione parziale e distorta della membership alla società, fino a dar vita a fenomeni di auto-segregazione nei confini delle comunità minoritarie. Altrettanti esiti tutto sommato coerenti con quelle che erano, come abbiamo visto, le aspettative nei confronti dei "lavoratori ospiti".

Un simile approccio, si badi bene, potrebbe funzionare egregiamente nel quadro di società in grado di fare un uso "disinvolto" del lavoro degli immigrati, sbarazzandosene nel momento in cui non se ne avverte più il bisogno. Ma nel confronto con la cultura dei diritti, esso ha presto manifestato la sua sostanziale inapplicabilità. A dispetto delle ambizioni iniziali, la storia europea ha visto il progressivo arricchimento del paniere dei diritti e delle opportunità riconosciuti ai migranti - in non rari casi divenuti residenti a titolo permanente, e spesso addirittura cittadini in senso pieno -. Il principio delle pari opportunità è stato eretto a cardine del funzionamento istituzionale, e molteplici programmi e iniziative sono stati implementati per realizzare l'obiettivo dell'integrazione dei migranti e dei loro discendenti; uno sforzo ampiamente condiviso dai soggetti della società civile, al di là dell'ambivalenza che irrimediabilmente accompagna il dibattito sull'integrazione e sulle misure per realizzarla. Ciò che semmai sconcerta, è come, fatta uscire dalla porta, attraverso normative che vietano ogni forma di trattamento differenziale e incoraggiano perfino il ricorso ad azioni positive, la discriminazione rientra dalla finestra, mediante la tendenza a riprodurre la logica della complementarietà, intrinsecamente discriminatoria. È in questo senso che possiamo parlare di "schizofrenia", per evocare appunto il tentativo di far convivere due criteri intrinsecamente contraddittori: quello economicistico, che tradizionalmente presiede al governo dei flussi, e quello dei diritti della persona (e dell'uguaglianza fra tutte le persone), sul quale si fondano le democrazie europee. Sintomaticamente, è la stessa normativa europea a incorporare questo tipo di contraddizione laddove, nel sancire il divieto di discriminazione, lascia però invariata la prerogativa degli Stati membri di definire le condizioni d'ingresso e d'accesso al mercato del lavoro per i cittadini dei Paesi terzi (Direttiva del Consiglio 2000/43/CEE).

Uno sguardo complessivo alle legislazioni in vigore nei diversi Paesi europei24 24 La sintesi presentata è frutto di una ricognizione in 10 Paesi europei realizzata nell'ambito del Progetto europeo Diverse. Diversity Improvement as a Viable Enrichment Resource for Society and Economy. Cf. ZANFRINI, The Diversity Value..., op. cit. Su questo tema cf. anche CHALLOFF, Jonathan. Evidenced-based Regulation of Labour Migration in OECD Countries: Setting Quotas, Selection Criteria, and Shortage Lists. ci restituisce l'impressione di come, ancor oggi, la gestione delle labour migrations tenda a obbedire alla medesima filosofia, rendendo del tutto probabile che si riproducano processi analoghi a quelli che hanno determinato l'attuale condizione di svantaggio strutturale. Al di là della varietà degli schemi migratori e delle procedure d'ammissione, i permessi d'ingresso e di soggiorno continuano, infatti, a essere rilasciati in ottemperanza al principio d'indisponibilità. Nei vari contesti nazionali, i lavoratori immigrati sono percepiti come una possibile soluzione ai problemi che investono i mercati del lavoro, con una particolare enfasi sull'esistenza di specifiche difficoltà di reclutamento, spesso correlate al processo d'invecchiamento che rende difficile il ricambio generazionale delle maestranze e degli addetti. In questo modo si riafferma l'assioma di uno specifico "bisogno" di manodopera immigrata, giustificato dalla sua elevata adattabilità. A volte le legislazioni sono ancor più spiccatamente demand-driven, plasmate sulle richieste dei datori di lavoro, fino al punto di vincolare il permesso di soggiorno a un determinato tipo di impiego o addirittura al datore di lavoro iniziale, di fatto impedendo ogni forma di mobilità occupazionale e professionale. E perfino nei Paesi che hanno adottato legislazioni "liberali", come la Svezia, l'autorizzazione all'ingresso dipende sempre dall'iniziativa del datore di lavoro. In definitiva, fatte salve poche eccezioni - come quelle dei Paesi dell'Est interessati ad attrarre migranti altamente qualificati per compensare la fuga all'estero dei loro giovani -, gli immigrati sono percepiti come una forza lavoro complementare, destinata a occupare i posti di lavoro a più basso gradiente sociale25 25 Aumenta peraltro la diffusione di programmi per l'attrazione di studenti e manodopera altamente qualificata, ma il loro impatto sul quadro complessivo della partecipazione degli immigrati al mercato del lavoro è attualmente decisamente modesto. . Talune legislazioni si spingono fino a contraddire palesemente il principio delle pari opportunità, per esempio attraverso l'imposizione di un regime vincolistico che imbriglia i percorsi di mobilità anche orizzontale. Infine, la questione del riconoscimento - e della valorizzazione - dei titoli di studio acquisiti all'estero e delle altre competenze dei migranti occupa una posizione decisamente marginale nell'agenda politica di quasi tutti i Paesi. Senza considerare come il desiderio d'assecondare un'opinione pubblica contraria a incoraggiare nuovi ingressi fa sì che spesso politiche formalmente di chiusura vadano di pari passo con una sostanziale tolleranza verso gli ingressi e le permanenze irregolari.

Funzionali a soddisfare i fabbisogni contingenti - o forse soltanto a offrire la parvenza di un "governo" dei flussi -, gli schemi migratori in vigore rischiano, per certi versi, di scontentare tutti. Essi non riescono, in primo luogo, a gestire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, com'è evidente dal fatto che la maggior parte degli accessi al mercato del lavoro europeo avviene non attraverso la front door, ossia i dispositivi pensati a tale scopo, bensì attraverso la side door delle migrazioni per ragioni familiari e umanitarie, o la back door delle migrazioni irregolari; e ciò non soltanto nei Paesi usualmente additati come il "ventre molle" dell'Europa, ma perfino in quelli percepiti come maggiormente rigorosi. A maggior ragione i dispositivi in vigore non riescono a rappresentare una valvola di sfogo alla pressione migratoria dall'estero, decisamente sovradimensionata rispetto alle possibilità d'ingresso legale (e proprio in questo squilibrio risiederebbe, secondo molti osservatori, la causa non solo dell'immigrazione irregolare, ma anche del ricorso improprio alla richiesta di protezione internazionale).

Tuttavia, prima di liquidare come ipocrite le attuali "strategie" - se di strategie si può parlare - in tema di politica migratoria, occorre misurarsi con quello che è il quadro che abbiamo tentato di sintetizzare nel precedente paragrafo. Ovvero prendere atto di come, via via che si stabilizza, diventa familiare, acquista diritti di welfare, l'immigrazione diventa meno "adatta" e disponibile a svolgere i "lavori da immigrati", e ciò ne riduce l'occupabilità all'interno di mercati del lavoro in cui quest'ultima si costruisce attraverso meccanismi sensibili alle differenze etniche e di status; in cui, cioè, il principale "talento" degli immigrati sembra essere la loro straordinaria adattabilità. È questo ciò che ci insegna la vicenda dell'immigrazione in Europa. Ed è per questo che si è nel tempo prodotto un duplice paradosso. Da un lato, elevati livelli di disoccupazione nell'ambito delle comunità immigrate convivono con il fabbisogno di nuova manodopera d'importazione. Dall'altro, l'esistenza di diffuse situazioni di sofferenza occupazionale rende politicamente problematica l'adozione di iniziative per il reclutamento attivo di lavoratori dall'estero, con la conseguenza di ridurre proprio l'ingresso della componente più vantaggiosa per gli equilibri di welfare.

Per gestire tale - apparentemente insanabile - paradosso occorre imboccare un cambio di rotta: piuttosto che aspettarsi che gli immigrati si adattino ai bisogni contingenti del mercato del lavoro, occorrerebbe chiedersi come la domanda di lavoro possa "adattarsi" ai caratteri degli immigrati, quelli manifesti e quelli latenti. Scoprendo, in tal modo, come proprio "occupandosi" degli immigrati e coltivando i loro talenti è possibile trovare una "ricetta" economicamente competitiva e socialmente sostenibile.

4. Conclusioni. La necessità di "volare più in alto"

Negli ultimi decenni, l'Europa è stata protagonista e testimone di uno straordinario processo d'inclusione degli immigrati stranieri nel sistema dei diritti e delle opportunità riconosciuti ai cittadini storici. E tuttavia, perfino laddove il compromesso politico-sociale è approdato alle soluzioni apparentemente più generose - l'equiparazione degli stranieri residenti ai cittadini nell'accesso ai diritti e alle prestazioni sociali, o addirittura l'incorporazione dei migranti nella comunità dei "nazionali", o perfino il riconoscimento di bisogni specifici che richiedono risposte ad hoc -, immigrati e appartenenti alle minoranze etniche sono, con poche eccezioni, sovra-rappresentati tanto fra i disoccupati, quanto in tutte le categorie a rischio di povertà e d'esclusione. Un effetto del tutto contro-intuitivo se si pensa a come il modello europeo abbia, tradizionalmente, ambito a selezionare i migranti proprio in base alla loro (immediata) occupabilità, ma che oggi ci si svela come la naturale conseguenza di questa stessa filosofia economicistica. La vicenda dell'Europa ci consegna, infatti, la consapevolezza di come, se vogliono essere funzionali alle richieste dei datori di lavoro - a loro volta socialmente costruite secondo il teorema della complementarietà -, i regimi d'ammissione finiscono inevitabilmente con l'attrarre un'immigrazione "povera", destinata a concentrarsi negli ultimi gradini della stratificazione professionale, ad accedere a bassi guadagni - dunque ad avere un impatto limitato sulla sostenibilità dei sistemi fiscali e previdenziali - e a dar vita a una seconda generazione strutturalmente svantaggiata. Ed è proprio tale consapevolezza a spiegare la "prudenza", ovvero l'imbarazzo, che presiede alle scelte in tema di politica migratoria. Ciò che semmai sconcerta è come, pur in un contesto profondamente mutato ed egemonizzato dalle istanze di contenimento, esse fatichino ad affrancarsi dal loro imprinting iniziale riproducendo, magari in forme nobilitate - come quelle della c.d. "migrazione circolare" - il vecchio paradigma del lavoratore ospite, ovvero un approccio "miope" nel governo dell'immigrazione, plasmato più sulle esigenze contingenti che non sugli obiettivi di sostenibilità. Così ponendo le premesse per la formazione di nuove minoranze discriminate; un rischio esacerbato dalle trasformazioni che i nostri mercati del lavoro hanno nel tempo conosciuto, e che qui possiamo sintetizzare parlando di crescita sia dell'area della disoccupazione, sia di quella della "cattiva" occupazione.

Tuttavia, oggi a sfidare questo modello, prima ancora che istanze di ordine etico, è l'importanza della popolazione immigrata o con un background migratorio nel contesto della "vecchia" Europa. Approssimandosi il momento in cui i Paesi europei si troveranno a gestire la transizione al pensionamento delle folte coorti dei baby boomers, accrescere la partecipazione al mercato del lavoro delle categorie maggiormente escluse e, insieme, tanto la produttività del lavoro quanto i livelli retributivi, rappresenta un obiettivo vitale.

In questo scenario, le iniziative rivolte agli immigrati hanno uno straordinario valore paradigmatico, sollecitandoci all'adozione di approcci e programmi molto più inclusivi di quelli che hanno caratterizzato gli anni alle nostre spalle, sfociando nella più lunga e dolorosa crisi economica della recente storia europea (alla cui origine vi è proprio la produzione di grandi quantità di esclusi, ovvero di "scarti umani", per riprendere un'espressione ancora più efficace). Alludiamo ad approcci e programmi nel campo, ad esempio, dell'empowerment individuale, dell'assessment delle competenze anche di tipo informale, della riqualificazione professionale e della gestione delle transizioni tra un lavoro e l'altro, ma anche della conciliabilità tra lavoro e impegni di cura (che tanto influiscono sui comportamenti delle donne immigrate) e di una gestione del personale attenta ai bisogni specifici di ogni lavoratore. Quelle di cui s'avverte la necessità e l'urgenza sono sensibilità politiche e culture organizzative più coerenti con un futuro nel quale la mobilità delle risorse umane, in tutte le sue declinazioni, si avvia a divenire la norma, e in cui i governi e le aziende saranno chiamati a gestire e accompagnare biografie lavorative reversibili e versatili, prospettando al contempo ai lavoratori reali percorsi di sviluppo professionale e umano.

A tale proposito, l'emergenza profughi che sta investendo l'Europa rappresenta uno straordinario banco di prova riguardo alla capacità di costruire economie competitive e al tempo stesso inclusive, ovvero competitive proprio perché inclusive. Il volume imponente, e al tempo stesso imprevedibile nella sua evoluzione, degli arrivi, sconfessa in maniera definitiva l'illusione di poter "scegliersi" i propri immigrati, attraverso dispositivi e criteri che ne massimizzino l'utilità per l'economia e ne mitighino il "peso" sulla società e gli apparati di welfare. I migranti per ragioni di protezione internazionale non possono essere scelti, e neppure selezionati - sebbene non siano mancati tentativi in questa direzione, peraltro inconciliabili coi valori su cui si reggono le democrazie europee26 26 Nel concitato dibattito che ha accompagnato la crisi dei rifugiati si è ipotizzato di selezionare i richiedenti asilo sulla base, ad esempio, del loro background culturale e religioso (erigendo il cristianesimo, dopo averlo espunto dalla costituzione europea, a meccanismo d'esclusione), del loro livello di qualificazione (reintroducendo una concezione classista della membership), o della loro origine nazionale, aprioristicamente eretta a criterio di "meritevolezza" (cf. ZANFRINI, Laura. Europe Facing the Refugee Crisis: A Real Challenge to Our Civilization). -. Al tempo stesso, la storia recente ci insegna come i rifugiati e gli altri immigrati titolari di protezione internazionale costituiscono una delle categorie più vulnerabili sul mercato del lavoro. Numerosi fattori concorrono a ostacolarne l'inserimento occupazionale: dalla difficoltà a certificare i titoli e le competenze acquisiti prima di migrare ai traumi subiti durante il tragitto migratorio, dalle conseguenze dei lunghi periodi d'inattività (o addirittura trascorsi in detenzione) alle difficoltà sul fronte dell'integrazione abitativa e sociale e alle loro ripercussioni sull'occupabilità. L'esperienza passata ci dice che ci vogliono addirittura 5-6 anni per integrare nel mercato del lavoro almeno la metà dei rifugiati, perfino nei Paesi in cui i servizi per l'impiego funzionano meglio27 27 POLICY DEPARTMENT - ECONOMIC AND SCIENTIFIC POLICY. Labour Market Integration of Refugees: Strategies and good practices. . Tanto più preoccupano le prospettive di quanti dovranno misurarsi con un contesto macro-economico non favorevole e caratterizzato - perlomeno in alcuni tra i principali Paesi d'approdo - da una ripresa molto debole e da una persistente emergenza occupazionale. Senza contare le conseguenze di un'opinione pubblica in buona misura refrattaria ad accogliere nuovi immigrati e soprattutto a condividere con loro diritti e opportunità, a partire dal lavoro. E, tuttavia, proprio la gravità di questa sfida ci deve spingere a "volare più in alto", e ad abbracciare la consapevolezza che gli interventi a favore dell'inclusione - dei profughi e dei migranti come di ogni altra categoria a rischio d'esclusione -, spesso rappresentanti come un costo, sono in realtà un investimento. Probabilmente il migliore investimento che possiamo fare non solo per loro, ma per il futuro di tutta la società europea.

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  • ZANFRINI, Laura (a cura di). The Diversity Value. How to Reinvent the European Approach to Immigration Maidenhead, UK: McGraw-Hill Education, 2015.
  • 2
    Cf. in particolare la Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione [COM (2000), 757 finale] nella quale si segnala come le politiche d'immigrazione "zero" non fossero più adeguate, alla luce del contesto economico e demografico dell'Unione, e come fosse necessario regolare la crescente pressione migratoria in modo da massimizzarne gli effetti positivi per l'Unione, per gli immigrati stessi e per i Paesi d'origine.
  • 3
    OECD. Making Integration Work. Refugees and others in need of protection. Hanno fatto eccezione, fino al principio della recessione, i Paesi dell'Europa Sud, che hanno autorizzato l'ingresso di sostenuti contingenti di immigrati.
  • 4
    SAYAD Abdelmalek. La doppia pena del migrante. Riflessioni sul "pensiero di Stato".
  • 5
    ZANFRINI, Laura. Il Dilemma Europeo. L'Europa della paura e l'Europa della speranza
  • 6
    Per un approfondimento della questione si rimanda a ZANFRINI, Laura. Introduzione alla sociologia delle migrazioni.
  • 7
    Destinati a scendere a 27 con la prevista uscita del Regno Unito.
  • 8
    Primo anno per il quale il dato è disponibile.
  • 9
    OECD, op. cit.
  • 10
    JOPPKE, Christian. Transformation of Immigrant Integration: Civic Integration and antidiscrimination in The Netherlands, France, and Germany.
  • 11
    Ovvero Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia.
  • 12
    HUDDLESTON, Thomas, DAG TJADEN, Jasper. Immigrant Citizens Survey.
  • 13
    HUDDLESTON, Thomas et alii. Migrant Integration Policy Index 2015.
  • 14
    La discriminazione indiretta si verifica quando, ad esempio, si prevedono, per l'accesso ad alcuni profili professionali, dei requisiti (come una certa altezza) e dei divieti (come quelli d'indossare alcuni capi d'abbigliamento o simboli religiosi) non sempre giustificabili dalle caratteristiche del ruolo.
  • 15
    VOURC'H, François, DE RUDDER, Veronique, TRIPIER, Maryse. Foreigners and Immigrants in the French Labour Market: Structural Inequality and Discrimination.
  • 16
    ZANFRINI, Laura (a cura di). The Diversity Value. How to Reinvent the European Approach to Immigration.
  • 17
    Un caso particolarmente emblematico è quello della Francia, Paese che ha fatto dell'ideologia assimilatrice ed egualitaria la propria bandiera - fino al punto di vietare la raccolta di dati cassificati secondo l'origine etnico-nazionale -, ma che ha dovuto riconoscere l'esistenza di episodi quotidiani di "racisme au travail", come recita il titolo di un'inchiesta che destò molto scalpore (BATAILLE, Philippe. Le racisme au travail).
  • 18
    WRENCH, John, REA, Andrea, OUALI, Nouria (a cura di). Migrants, ethnic minorities and the labour market. Integration and exclusion in Europe.
  • 19
    ALBA, Richard; FONER, Nancy. Strangers no more. Immigration and challenges of integration in North America and Western Europe.
  • 20
    FRA. Opinion of the European Union Agency for Fundamental Rights on the situation of equality in the European Union 10 years on from initial implementation of the equalities directives.
  • 21
    HUDDLESTON et alii, op. cit.
  • 22
    PAPADEMETRIOU, Demetrios G.; HAMILTON, Kimberly A. Managing Uncertainty: Regulating Immigration Flows in Advanced Industrial Countries.
  • 23
    Tale è il principio secondo il quale l'ingresso di un lavoratore straniero è consentito solo se non vi è alcun lavoratore indigeno o comunque già residente disponibile a ricoprire il posto di lavoro per il quale si richiede l'autorizzazione all'ingresso.
  • 24
    La sintesi presentata è frutto di una ricognizione in 10 Paesi europei realizzata nell'ambito del Progetto europeo Diverse. Diversity Improvement as a Viable Enrichment Resource for Society and Economy. Cf. ZANFRINI, The Diversity Value..., op. cit. Su questo tema cf. anche CHALLOFF, Jonathan. Evidenced-based Regulation of Labour Migration in OECD Countries: Setting Quotas, Selection Criteria, and Shortage Lists.
  • 25
    Aumenta peraltro la diffusione di programmi per l'attrazione di studenti e manodopera altamente qualificata, ma il loro impatto sul quadro complessivo della partecipazione degli immigrati al mercato del lavoro è attualmente decisamente modesto.
  • 26
    Nel concitato dibattito che ha accompagnato la crisi dei rifugiati si è ipotizzato di selezionare i richiedenti asilo sulla base, ad esempio, del loro background culturale e religioso (erigendo il cristianesimo, dopo averlo espunto dalla costituzione europea, a meccanismo d'esclusione), del loro livello di qualificazione (reintroducendo una concezione classista della membership), o della loro origine nazionale, aprioristicamente eretta a criterio di "meritevolezza" (cf. ZANFRINI, Laura. Europe Facing the Refugee Crisis: A Real Challenge to Our Civilization).
  • 27
    POLICY DEPARTMENT - ECONOMIC AND SCIENTIFIC POLICY. Labour Market Integration of Refugees: Strategies and good practices.

Publication Dates

  • Publication in this collection
    Apr 2017

History

  • Received
    13 Feb 2017
  • Accepted
    07 Mar 2017
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