Estratto:
Scopo di questo contributo è presentare il tema della correlazione fra tragedia e commedia a partire da alcuni passi dei dialoghi platonici, allo scopo di mostrare come tale connessione risulti autorizzata almeno sotto un duplice aspetto: lo sfondo culturale al quale i dialoghi si ispirano, nel quale simili contaminazioni fra la tragedia e la commedia sono attestate; l’intento platonico di chiarire la causa psicologica e ontologica della mescolanza fra piacere e dolore, rinvenibile soprattutto nella vita sensibile e nelle anime incarnate, e di valutare la drammaturgia a partire da quest’indagine causale. Si accenna, in questa cornice, alla possibilità che possa esistere una drammaturgia filosofica, in cui gli aspetti negativi di quella popolare sono evitati grazie alla conoscenza della struttura della realtà e dell’anima.
Parole-chiave:
Tragedia; commedia; piacere; dolore; anima
Abstract:
The aim of this paper is to present some aspects of the correlation between tragedy and comedy from some passages of Platonic dialogues, in order to show that this connection goes back to at least two issues: the cultural background, on which the dialogues depend, where such contaminations between tragedy and comedy are attested; Platonic intent to clarify the psychological and ontological causes of the mixture of pleasure and pain, and to evaluate the dramaturgy from this causal investigation. In such a framework, there are some hints at the possibility of a philosophical drama, where problems of popular art are avoided, thanks to knowledge of both the structure of reality and that of the soul.
Keywords:
Tragedy; comedy; pleasure; pain; soul
Le forme d’arte miste: Il tragi-comico
I dialoghi platonici1 accennano alle possibili tangenze fra i due generi drammatici della tragedia e della commedia almeno da un duplice punto di vista: in un primo senso, il tema viene affrontato sotto il profilo della mimesi poetica, in relazione alla quale Platone si chiede se il medesimo poeta possa esprimersi in entrambi i generi; l’altra prospettiva riguarda, invece, la correlazione fra le emozioni veicolate dal tragico e dal comico, ossia il dolore e il piacere. Partirò dal primo aspetto, rinviando il secondo alla sezione in cui tratto delle radici del tragi-comico.
Il problema, stilistico ma non solo, è affrontato nel Simposio e nella Repubblica. Mentre il primo dialogo, se pure in una forma interlocutoria, difende l’idea che il poeta tragico debba saper comporre anche commedie, nel terzo libro della Repubblica tale possibilità è respinta:
Se ne stavano svegli soltanto Agatone, Aristofane e Socrate e continuavano a bere da una grande coppa compiendo il giro sulla destra. Socrate discuteva con loro. […] Socrate conduceva i suoi interlocutori ad ammettere che la stessa persona deve sapere comporre commedie e tragedie e che chi in arte è poeta tragico, è anche poeta comico. Ed essi, costretti a queste ammissioni e seguendolo poco, dormicchiavano di tanto in tanto (Smp. 223d).2
Raramente uno può essere […] un buon imitatore di molti modelli. Nemmeno in due forme imitative che appaiono tanto vicine tra loro, ossia la commedia e la tragedia, il medesimo poeta riesce a eseguirle bene entrambe (R. III 395a).
La questione può essere diversamente declinata e risolta. In una cornice psicologica, ci si chiede se lo stesso uomo possa eccellere in due forme che, pur apparentate, restano distinte. Così presentata, l’aporia trova una proposta di soluzione nella tradizione esegetica. Nel suo esteso Commentario alla Repubblica, Proclo riconosce la matrice psichica delle considerazioni platoniche relative alle forme d’arte e ammette una corrispondenza tra la poesia e la struttura triplice dell’anima (Lamberton, 2012, p. XXI-XXIII; Sheppard, 1980, p. 162). L’anima, in ragione della sua natura uni-molteplice, possiede facoltà diversificate che, nel caso del poeta tragico e di quello comico, sviluppano capacità distinte, per quanto non del tutto separate. Dunque, la domanda che Socrate pone ai commensali nel Simposio resta una evenienza non attualizzata, e si può escludere che si possa essere al contempo un grande tragico e un grande comico (Procl. in R. I 51,26).
È ammissibile, sotto il riguardo delle abilità, che il medesimo poeta conosca le tecniche drammaturgiche nel loro insieme; quanto, però, alla creazione artistica vera e propria, egli non potrà se non scegliere, a partire dalle dynameis della propria anima maggiormente sviluppate, tra il pianto e il riso (Procl. in R. I 53,8). Quindi, sebbene la radice del tragico e del comico sia la medesima, l’effettiva espressione artistica delle due forme presenterà caratteri divaricati.
Questa lettura, coerente con la psicologia platonica, può essere in parte corretta alla luce di considerazioni storico-letterarie. È vero che non sono attestati casi di drammaturghi che abbiano gareggiato sia in ambito tragico che comico (Patterson, 1982, p. 76) – il che darebbe ragione a Proclo. È altresì vero che la produzione drammaturgica antica offre molteplici esempi di contaminazione che rientrano in quel complesso sottogenere misto noto come paratragedia e paracommedia, in cui sarebbero stati maestri Aristofane ed Euripide (Silk, 1993; Beltrametti, 2004, p. 90; Saetta Cottone, 2010; Cerri, 2011). Posta in tali termini, la tesi difesa nel Simposio potrebbe essere recuperata, concedendo che appartenga allo stesso uomo dominare entrambi i generi all’interno di un unico dramma tragico-comico. La domanda a cui rispondere diverrebbe dunque la seguente: quale poeta è in grado di eccellere in una simile contaminazione?
Non è da escludere che Platone mirasse a un consapevole confronto con i massimi esperti tra i poeti. I dialoghi recano in generale tracce tragi-comiche, evidenti soprattutto nei discorsi socratici, allorché “nel cuore di un episodio tragico […] compare il sorriso insinuante di colui che […] in realtà governa il gioco sommo […] e vuole modificare il comportamento dello spettatore-lettore, orientandolo su un’altra scena, attirandolo sul proprio peculiare uso delle convenzioni” (Beltrametti, 1994, p. 91). L’intero Simposio, che più o meno esplicitamente si richiama ai drammi aristofanei ed euripidei (Castrucci, 2015; Cerri, 2012, p. 184), è a tal riguardo concepibile come una scena teatrale, pregna di elementi satireschi, di volontarie contaminazioni tragi-comiche e di artifici drammatici (Patterson, 1982, p. 87-88; Buchanan, 1988; Nussbaum, 2001, p. 165; Usher, 2002; Beltrametti, 2004, p. 103-106; Sheppard, 2008; Destrée, 2012, p. 137-138; Migliori, 2013, p. 113-117; Castrucci, 2015) che fungono da preludio alla discussione con cui Socrate intrattiene i compagni ormai ubriachi.3
Sono proprio un tragico – Agatone – e un comico – Aristofane – ad accondiscendere infine alla proposta socratica e a incoronare il maestro come rappresentante di un vero e proprio teatro filosofico “caratterizzato dalla commistione fra generi, in cui tragedia e commedia si integrano in una sola, inesausta ricerca della verità” (Castrucci, 2015, p. 79), dove a prevalere è una “nuova forma di poesia, rappresentata dal dialogo, capace di unire tragedia e commedia” (Corradi, 2018, p. 20).
Insomma, solo il dialogo filosofico – in cui l’autore non mente perché conosce e, in questo senso, non realizza un’opera mimetica (R. III 393c; Burnyeat, 2012, p. 59-61) – sarebbe capace di mettere consapevolmente in atto quella tecnica e struttura unica che si biforca nella tragedia e nella commedia. La drammaturgia popolare, anche nelle migliori realizzazioni paratragiche o paracomiche, difetterebbe della conoscenza (Patterson, 1982, p. 83), non dal punto di vista dello stile, ma da quello dell’oggetto trattato. E, dove manchi la cognizione della struttura psichica – che istanzia la radice di ogni contaminazione – e delle reali cause degli aspetti della realtà sensibile – essa è tragi-comica e, pertanto, mista, per il fatto stesso di non identificarsi pienamente con le sue cause intelligibili –, il prodotto artistico, per quanto aderente de facto all’unità, sarà, de iure, indegno del podio.
Il fatto che Platone dipinga gli interlocutori di Socrate ubriachi e mezzo addormentati potrebbe, però, rappresentare la spia meta-teatrale della necessità che la proposta socratica sia ulteriormente indagata, proprio alla luce di quella conoscenza razionale la cui assenza è denunciata nell’arte popolare.
Tragico, comico e tragi-comico: Relazione simmetrica o asimmetrica?
Se il Simposio schiude all’eventualità di una drammaturgia filosofica di matrice tragi-comica, le Leggi sembrano presentare un diverso scenario, in cui è alla sola tragedia che viene riconosciuta la possibilità di aspirare a uno statuto filosofico. Le forme poetiche, anche quando non sono orientate – consapevolmente o inconsapevolmente – all’inganno e descrivono l’oggetto conformemente alla (sua) verità, si muovono nell’orizzonte del verosimile e del sensibile. Farebbe eccezione la tragedia che, nella sua espressione migliore, sembrerebbe in grado di assumere a proprio oggetto non la vita sensibile, ma la struttura intelligibile:
Ospiti nobilissimi […], noi stessi siamo autori di una tragedia e, per quanto è possibile, della più bella e della più nobile […], perché tutta la nostra costituzione è stata determinata a partire dall’imitazione della vita più bella e più nobile (Lg. VII 817b).
È stato opportunamente rilevato che qui non è il filosofo, ma il legislatore a essere definito tragediografo, per cui non si può escludere che l’intero discorso vada concepito come metafora volta a sottolineare degli aspetti di somiglianza fra la tragedia e la città – ad esempio il carattere corale dell’organizzazione (Meyer, 2011, p. 388-391). Non si ragionerebbe, in altri termini, sull’ipotesi di una tragedia filosofica. Tuttavia, nella misura in cui Platone non starebbe qui assumendo a riferimento l’intera architettura tragica, ma un suo peculiare aspetto, ossia quello di essere “depiction of the best life” (Meyer, 2011, p. 392), emergerebbe comunque nell’analogia l’idea che sia possibile realizzare una tragedia individuandone i suoi caratteri migliori, ed escludendo quelle mescolanze emotive e quelle problematiche di cattiva assimilazione che motivano il bando di questo genere poetico:
Only if the tragedies of the poets give the same (or a better) account of the good life as the politeia of Magnesia will they be permitted to be performed in that city (Meyer, 2011, p. 397).
Si tratterebbe, pertanto, di una tragedia fondata sulla conoscenza, composta da filosofi o da poeti educati da filosofi; o, al limite, di un dramma attribuibile a poeti che non siano coinvolti nell’esilio, in quanto autori di opere moralmente non censurabili, nelle quali l’immedesimazione avviene con caratteri scolpiti dall’etica (Palumbo, 2008, p. 247; Giuliano, 2005, p. 48).
Sembra, in ogni caso, che venga esclusa dal novero delle forme d’arte in grado di assurgere alla dignità filosofica la commedia – e, dunque, la contaminazione tragi-comica –, la quale resterebbe confinata alle sue espressioni, per così dire, popolari (Patterson, 1982, p. 80; Meyer, 2011, p. 392-393), tanto che, a tutela dell’onorabilità dei cittadini, è fatto divieto ai comici di canzonarli (Lg. XI 935d-936a).
A meno che non si ammetta una diversa nozione di commedia, in cui il ridicolo sia tale solo in apparenza, nel senso di mostrare la realtà quale essa appare a chi non sa (Patterson, 1982, p. 80-83), lasciando intravedere come la descrizione dei fatti si ribalti alla luce di chi li comprenda realmente. Ciò renderebbe concepibile anche una commedia filosofica: i suoi caratteri sarebbero, tuttavia, diversi rispetto al modello originario, in quanto si tratterebbe nelle sue intenzioni di un’opera seria, in tal senso identificabile in parte con la tragedia (filosofica) – in questo caso, non è infatti il sapere a essere protagonista, ma la sua assenza – e, perciò, con il genere misto del tragi-comico. Quindi, sembrerebbe difficile immaginare una commedia (pura) filosofica, ma si resterebbe aperti alla possibilità di una tragi-commedia.4
Quanto accennato trova, a parere di taluni, una legittimazione teorica nel Filebo, dove l’essenza del γελοῖον è ritrovata appunto nell’ignoranza e nella presunzione di sapere, condizioni che incarnano nature opposte a quella socratica (Capra, 1998, p. 187; Wood, 2007, p. 77; Cucinotta, 2014, p. 157-159):
Parti di qui e vedi quale natura abbia il ridicolo. […]. Nel suo nucleo è una certa cattiveria, che prende nome da una certa disposizione. Ma della cattiveria nel suo insieme è la parte che si trova nella situazione contraria a quella indicata dall’iscrizione di Delfi (Phlb. 48c).
Nella prospettiva di una drammaturgia filosofica, la tragedia e la commedia, intrinsecamente tragi-comica, risultano allora generi speculari. La loro differenza specifica incarna un analogo dello spartiacque che divide il filosofo dal sofista, nella misura in cui il secondo, con il suo rappresentare il rovesciamento del primo, mette in essere una figura la cui tragica comicità proviene dalla simulazione: essa, (forse) ignota al protagonista del dramma, risulta chiara solo alla luce del vero sapere. Non va trascurata, a tal proposito, una fondamentale parentela fra poeti e sofisti, in quanto entrambi “play a significant role in moral education in Greek society” (Notomi, 2011, p. 309), quell’educazione morale rispetto alla quale Platone intende costruire un’alternativa.
Da questo punto di vista, se davvero è concepibile l’edificazione di una (tragi-)commedia filosofica, essa dovrebbe portare sulla scena, per così dire, dei contro-valori, impedendo, tuttavia, che essi siano colti come valori dagli spettatori: una sorta di distopia didattica, in cui il vero sembra falso e il falso vero – in ragione dell’oblio di quanto la tragedia filosofica assume a proprio oggetto, ossia l’intelligibile –, ma in cui si fornisce anche lo strumento per sciogliere la contraddizione. Un’opera drammaturgica siffatta potrebbe manifestare la propria finalità solo a chi mostri cognizione dell’opera di capovolgimento: dunque, lo spettatore dovrebbe ergersi a giudice, senza identificarsi con quanto è rappresentato. Ma un tale spettatore non può se non condividere con l’autore la premessa essenziale della conoscenza delle cose come sono o, almeno, essere stato avviato a indagarla.
Quanto detto mi pare confermare l’esclusione di una commedia filosofica che non includa anche contaminazioni tragiche. Se la tragedia filosofica è concepibile come la forma drammatica che assume direttamente a riferimento l’intelligibile e il tragi-comico come la struttura che inscena, alla luce della conoscenza, l’ignoranza delle cause intelligibili, la commedia pura dovrebbe incarnare una situazione in cui l’ignoranza, non rinviando alla conoscenza, resterebbe indefinibile anche come ignoranza. Inoltre, le contraddizioni del sensibile non potrebbero essere sciolte, dal momento che verrebbe a mancare quello sguardo ulteriore a partire dal quale giudicare causalmente la scena.
Delle scene tragi-comiche secondo le premesse sopra avviate si ritrovano, ad esempio, nel Teeteto, dove, anzi, sono i protagonisti stessi a incarnare l’uno il rovesciamento dell’altro, aiutando così lo spettatore a inquadrare correttamente l’evento. Maschera a prima vista comica è Talete, la cui distrazione appare risibile solo a una servetta (Tht. 174a). Nel medesimo senso è solo in prima battuta comica l’ἀτοπία di Socrate, che fa capolino, nello stesso intermezzo del dialogo, dal ritratto del filosofo, dipinto come uno che fin da giovane ignora la strada che conduce alla piazza. Egli, estraneo alle attività a cui i pensieri dei concittadini sono rivolti, appare talvolta goffo e ignorante (Tht. 173c). Anche qui, tuttavia, la situazione si rovescia, nel momento in cui il filosofo innalza il proprio sguardo verso il cielo, provocando le vertigini a chi lo canzonava e così rivelando che la maschera comica addossatagli era soltanto l’esito di quell’impressione di straniamento che di norma un amante della filosofia provoca in chi non ne comprenda la natura e le scelte (Halliwell, 2008, p. 276-300).
Quanto accennato autorizza ad alcune conclusioni. La tragedia filosofica immaginata nelle Leggi ha carattere mimetico, ma non nel significato generalmente ascrivibile alla mimesi poetica. L’autore della “più bella” delle tragedie costruisce, sul piano sensibile, una scena che si conforma nel migliore dei modi alle cause eidetiche e che, in tal senso, palesa non la menzogna, ma l’inevitabile distanza fra gli archetipi e ciò che di essi partecipa (Botter, 2015b). In questo caso l’assimilazione dello spettatore con la narrazione non è vietata ma, al contrario, auspicata. Il che rientra nella possibilità di un uso positivo delle immagini e, quindi, della mimesi (Gonzales, 2018).
La tragi-commedia filosofica, in virtù della sua matrice rovesciata, richiede, invece, valutazione e distacco, e dunque non assicura in modo immediato la conoscenza del vero, ma, per così dire, la mette a disposizione nel momento in cui lo spettatore abbia inquadrato gli eventi in una cornice che è esterna alla narrazione e che – potremmo ipotizzare – viene ricavata dalla tragedia (filosofica). In questo secondo caso, poiché a essere oggetto di imitazione è l’ignoranza – per quanto dipinta a partire dalla conoscenza –, quello che si chiede allo spettatore o al lettore è di prendere atto dell’illusione scenica, il che è possibile solo a patto di alienarsi dall’identificazione e di cogliere un aspetto del dramma che, apparentemente simile alle sue manifestazioni popolari, si distingue da esse in ragione delle intenzioni con cui l’autore realizza questo teatro di ombre.
La drammaturgia filosofica di ascendenza tragi-comica, quindi, non può non confrontarsi con la tendenza, insita in tutto ciò che è nel sensibile, all’assimilazione (Phd. 74d-75d; Botter, 2015b, p. 25-26). Tuttavia, anziché mirare all’immedesimazione acritica con quanto raffigurato – come invece accade nelle rappresentazioni drammatiche che è intenzione di Platone bandire, proprio per la stretta relazione individuata fra l’assimilazione e la mimesi (Lear, 2011, p. 195) –, essa invita alla riflessione e alla distanza (Destrée, 2012, p. 136), con questo impedendo l’assunzione di costumi etici inadeguati.
Insomma, se la tragedia filosofica è costruita sulla conoscenza, la tragi-commedia filosofica assume come veri i contenuti di quella e mostra cosa accada nel caso di una trasvalutazione. Preservando un legame con il vero, essa permette, in un modo o nell’altro, di cogliere i caratteri rovesciati della rappresentazione, così aiutando a percorrere la via del sapere.
Detto altrimenti, la tragi-commedia filosofica prende a riferimento la tragedia secondo una modalità analoga a quella attraverso la quale il sensibile partecipa dell’intelligibile, in questo modo istituendo con essa una relazione asimmetrica in cui i contenuti tragici si riverberano in quelli comici – così generando il tragi-comico –, senza che valga necessariamente l’inverso – il che fonda ontologicamente la possibilità di una tragedia pura.5
Per rendere tale proposta di lettura coerente – ma non coincidente – con le considerazioni sviluppate a proposito del Simposio, potremmo allora dire che la drammaturgia filosofica si colloca a un duplice livello. Il primo presenta caratteri, di fatto, misti, in cui il registro tragi-comico mira a determinare delle fratture nel lettore, in modo che egli, confuso da emozioni ambivalenti e ostacolato nell’identificazione con quello a cui assiste, sia spinto alla ricerca di cause stabili che lo orientino nel giudizio degli eventi. Qui il tragi-comico – la cui componente emotiva è la mescolanza di riso e pianto – può svolgere, per i suoi caratteri di continuo ribaltamento, una funzione simile a quella da cui prende l’avvio la dialettica, se è vero che il motore di quest’ultima è la constatazione di effetti contrari di cui non si riesce in prima battuta a ritrovare la causa (Cucinotta, 2014, p. 162).6 Un secondo livello, e ulteriore, sarebbe costituito dalla tragedia vera e propria: priva di connotati misti, in quanto maggiormente aderente al vero, essa dovrebbe rinviare a emozioni altrettanto prive di mescolanza.
La radice del tragi-comico: La bestia polimorfa
L’anima è paragonata da Platone a un ibrido, la cui testa umana deve cimentarsi con un leone – le emozioni – e con un mostro polimorfo e policefalo, simbolo dei desideri primordiali (R. IX 588c-589b; Cattanei, 2014, p. 30-31; Szlezák, 2021, p. 329). Diversamente dagli istinti, che costantemente sfuggono al dominio della ragione, le emozioni possono più facilmente essere orientate, purché si individuino le corrette strategie e si respingano le occasioni in cui è più probabile che le emozioni divengano alleate della parte inferiore dell’anima. Fra le tecniche adottate dalla filosofia e rivolte all’educazione delle emozioni rientra il bando della produzione poetica, concepita dalla cultura greca anche come fonte di insegnamento morale (Hatab, 2007, p. 320; Nussbaum, 2001, p. 123). Nel progetto platonico, la filosofia rappresenterebbe un’alternativa etica, la cui superiorità sarebbe provata sia dal possesso della conoscenza della psiche, sia dalla migliore padronanza di registri stilistici diversificati e frequentemente mutuati dalla poesia stessa, padronanza garantita, a propria volta, dalla conoscenza.7
Al genere drammatico è ad esempio imputato l’errore scaturente dalla cosiddetta imitazione somigliante. Ispirandosi alle vicende umane, di per sé esposte alla mutevolezza, essa si attiene ai caratteri dell’oggetto individuato, ma risulta inadeguata in ragione dell’alterabilità del soggetto scelto e del rischio che negli spettatori sia oltremodo nutrita, attraverso l’assimilazione con i caratteri rappresentati, la sfera intemperante dell’anima (R. X 605a; Destrée, 2011). Agiscono su quest’ultima una serie di forme di incantamento, favorite dal ritmo, che guadagnano l’assenso dell’ascoltatore grazie alla dimensione emotivo-persuasiva della parola: questa irretisce l’anima, analogamente a quanto accade nelle condizioni erotiche che sfuggono al controllo della ragione (R. X 607c; Halliwell, 2011, p. 255-256; Candiotto, 2017). Un utilizzo siffatto della parola incoraggia l’insorgere di squilibri nell’anima e di una errata visione delle emozioni, cagionando effetti simili a quelli prodotti dalla pittura e dalle manifestazioni esagerate di dolore in occasione dei lutti, quando le corrette proporzioni fra le cose sono sovvertite (Pinotti, 2006, p. 15; Moss, 2007; Petraki, 2011, p. 229; Petraki, 2013; Botter, 2015a, p. 35-36):
Avremmo buoni motivi per criticare il poeta e porlo a confronto col pittore. [...] Si rivolge a una parte dell’anima che non è la migliore. [...] I poeti danno soddisfazione e gratificazione proprio a quella parte che con grande sforzo noi cerchiamo di contenere nei momenti di lutto familiare e che di per sé non vorrebbe altro che pianti e lamenti (R. X 605b).8
Le emozioni veicolate dalla tragedia, in cui pianti e lamenti prorompono incontrollati, ostacolano l’egemonia della parte razionale dell’anima, favorendo, infine, dei comportamenti considerati tipicamente femminili che sono quelli in cui maggiormente si manifesta il disordine psichico, principale antagonista dell’unità soggiacente a cui Platone guarda sia per il singolo, sia per la città (R. X 605d-e; Murray, 2011, p. 182-183).
Analogamente, è sottoposta a critica la commedia, nella misura in cui i toni caricaturali di cui essa fa sfoggio incoraggiano – allorché il riso prorompa senza che venga trattenuto dalla ragione, così stravolgendo lo spettatore, nei tratti come nell’ethos – l’identificazione con situazioni e costumi che, normalmente, un uomo dabbene respingerebbe, in quanto eticamente inammissibili e, solo in tal senso, risibili (R. X 606c).
L’imitazione variegata, per il suo carattere antropomorfo, è, come si inferisce da quanto accennato, quella che mostra le più immediate connessioni con la struttura psichica dell’uomo. Nel Timeo Platone, anticipando Aristotele, rinviene nell’umanità una “razza mimetica”, che ha grande facilità a imitare “quelle cose all’interno delle quali è stata cresciuta” (Ti. 19d; cf. Po. 1.4 1448b; Evangeliou, 2018). Da qui deriva nell’uomo la propensione all’assimilazione.
La relazione tra imitazione e assimilazione è ciò che contribuisce alla risalita verso l’intelligibile; al tempo stesso, l’anima è esposta al pericolo di accogliere, a partire dall’identificazione con caratteri umani scelti da poeti privi di conoscenza, un’indole sconveniente, tale da mettere in discussione proprio ciò a cui un’anima ordinata dovrebbe tendere.
La coesistenza di piacere e dolore e la fondazione ontologica del tragi-comico
Una delle spie dello squilibrio psichico che viene nutrito dalla drammaturgia non filosofica è il costante trascorrere dell’anima dal piacere al dolore, senza che l’uno e l’altro vengano correttamente individuati. D’altra parte, l’imitazione variegata ricava il proprio potere dalla struttura dell’anima e dalla sua inevitabile attrazione, almeno finché è incarnata e non è dominata dalla sfera razionale, verso ciò che è misto.
Non è un caso se il Filebo miri a dimostrare che il piacere è variegato (ποικίλον). Condizione, questa, per ammettere piaceri sia misti, sia puri:
Quanto al piacere […] so che è variegato. A sentirne il nome così semplicemente, è un’unità, ma certamente ha assunto svariate forme e […] dissimili […]. Prova piacere l’uomo che non ha freni […], ma prova piacere anche l’assennato (Phlb. 12c-d).
Lo scopo di Platone è, in primo luogo, quello di argomentare che esistono piaceri opposti (Phlb. 12d-13a), all’interno di una discussione che sviluppa due questioni fra loro connesse: il problema del rapporto fra piacere, conoscenza e bene (Phlb. 11b-c); la relazione fra uno e molteplice, limite e illimitato, che può essere compresa solo alla luce della dialettica, in modo che il passaggio dall’uno ai molti avvenga gradualmente e senza una frettolosa identificazione (Phlb. 18a-b).
Nel tentativo di sottomettere il piacere al pensare – pur nell’ammissione che l’intelletto umano non è causa assolutamente prima –, si perviene a concedere che qualsivoglia realtà contenga il “più” e il “meno” tende all’illimitatezza, a meno che non sopraggiunga la quantità, ossia il numero, a generare una determinazione (Phlb. 24b-d). Ora, poiché il piacere e il dolore ammettono il più e il meno, essi sono illimitati (Phlb. 27e-28a), diversamente dall’intelletto il quale, allora, rinvia a un altro genere, concepibile come causa ordinatrice (Phlb. 30d-e):
Ricordiamoci […] che l’intelletto è imparentato con la causa […], mentre il piacere […] appartiene al genere che non ha né avrà mai in se stesso […] né principio né mezzo né fine (Phlb. 31a).
La natura originariamente indeterminata del piacere e del dolore costituisce la premessa per difendere l’inestricabile correlazione tra le due emozioni nel momento in cui la loro indeterminatezza venga soggetta a una quantificazione. In quanto entrambe le passioni sono soggette, per esistere, al genere misto cosiddetto dell’armonia, sarà quest’ultima a favorire la presenza alternata dell’uno o dell’altro e a costituire la causa del loro nesso (Frede, 1992; Erginel, 2019, p. 106-109).9 Poiché, inoltre, la fonte del piacere e del dolore non è il corpo, ma l’anima, e questa è, parimenti, la sede della conoscenza, della sensazione, della memoria e dell’opinione, il piacere e il dolore, già di per sé legati, si possono manifestare contemporaneamente alla coscienza e alla memoria (Erginel, 2019, p. 113), ad esempio come attenzione a una condizione avvertita e, simultaneamente, come attesa del suo contrario.
Dal riconoscimento del legame tra piacere e dolore consegue l’ammissione della natura inevitabilmente mista di ogni forma artistica che li abbia a proprio oggetto. Poiché, infatti, l’intima correlazione tra le due passioni si rivela in particolare nelle emozioni (Phlb. 47e; Erginel, 2019, p. 111-112) e queste regnano sovrane nel teatro, la conclusione non può se non essere che il luogo emblematico della mescolanza diventeranno gli spettacoli drammatici, “quando si gioisce e si piange al tempo stesso” (Phlb. 48a; Erginel, 2019, p. 115).
Lo spazio che nel Filebo trova l’indagine sul comico non è, dunque, casuale. Anzi, essa è stata a ragione considerata il culmine dell’indagine platonica sui piaceri misti (Destrée, 2019; Cairns, 2024, p. 176). E, nel momento in cui si dimostra che il piacere veicolato dalla commedia non è puro, viene rafforzata l’idea che le forme drammatiche non possano se non essere contaminate, giacché riflettono la miscela che appartiene alla “tragedia e commedia della vita” (Phlb. 50b).
Il problema non è, in quest’ottica, la mescolanza in quanto tale, ma il mancato inquadramento della mescolanza stessa, che induce a non riconoscere la soggezione psico-ontologica delle emozioni alla ragione e del piacere alla conoscenza. L’anima non sempre intravede quella gerarchia che motiva, quasi geometricamente, la natura delle emozioni e il loro presentarsi o meno. Essa ammette al livello più alto l’assenza di piacere e dolore, poiché ciò che è buono non ha bisogno di altro e, non desiderando, non avvia il motore emotivo (Phlb. 60c). Subordinato al buono è quell’essere intelligente che, destinato a patire la mescolanza, può tuttavia appellarsi alla conoscenza per operare una cernita che punti alle forme di piacere accompagnate da temperanza (Phlb. 63b) e a un’espressione del dolore che resti contenuta, nella consapevolezza che “ogni mescolanza […] se non ha raggiunto la misura e la proporzione, porta necessariamente alla rovina” (Phlb. 64d). È solo al margine inferiore di questa piramide etica che si scoprono i piaceri misti e falsi.
All’anima disordinata sfugge tale struttura geometrica e, in quanto la ψυχή resta la misura delle passioni, esse possono andare soggette a una erronea individuazione, in virtù della possibilità di un’opinione scorretta (Phlb. 31b; Casertano, 1996, p. 284-285, 287-292; Harte, 2004; Evans, 2008). Consegue da ciò il ricorso, prima citato, all’immagine del pittore,10 in quanto in alcune anime, esattamente come accade nel caso della pittura, i rapporti fra le due affezioni possono risultare del tutto ingannevoli, tanto da generare piaceri e dolori che si arrestano all’imitazione di quelli veri (Phlb. 40c). E, dal momento che è specialmente nelle anime che non versino in una buona condizione che il piacere e il dolore si manifestano con la maggiore virulenza (Phlb. 45e), e poiché sono soprattutto le anime in preda a disordini emotivi a risultare condizionate dai generi drammatici, si comprenderà l’importanza della rifondazione della drammaturgia.11
Il tragi-comico, popolare come filosofico, svela i caratteri misti della vita sensibile, ma assume due forme possibili. Lì dove non gli si affianchi la conoscenza – tale sarebbe il caso dei poeti o della maggior parte di essi –, si avvia a diventare imitazione variegata di vicende altrettanto variegate, che abbandonano lo spettatore nel teatro e lo lasciano preda di emozioni smisurate di fronte alle quali la ragione resta inerme.
Qualora la visione della dimensione corporeo-sensibile sia accompagnata da consapevolezza, il tragi-comico può favorire un corretto inquadramento delle emozioni, e farsi ponte per la conoscenza delle autentiche cause del piacere e del dolore, che non risiedono in quanto tali nel sensibile e nella corporeità, ma nell’intelligibile e nell’anima. In questo secondo caso, l’anima non è sedotta, ma è guidata alla scoperta della sua più autentica essenza. La seduzione tocca, infatti, quei piaceri misti che saldano alla terra e alle parvenze, trascinando i sedotti in guerre dove, come sarebbe accaduto secondo Stesicoro a Troia, il bottino è l’immagine, non la verità, allorché le parti inferiori dell’anima vengono attirate da fantasmi (R. IX 586a-c; Phdr. 243a-b; Moss, 2008).
Diversa è la condizione della tragi-commedia orchestrata ad arte dai filosofi, il cui obiettivo è distogliere lo spettatore da ogni forma di visione meramente orizzontale.
La tragedia più bella e il piacere puro
Vorrei chiudere con alcune brevi considerazioni intorno alla questione dei piaceri puri. Platone, come è noto, ne tratta sia nella Repubblica, sia nel Filebo:
Considera poi che il piacere degli altri [...] non è né assolutamente vero, né puro; non è che un’ombra di piacere (R. IX 583b).
Ma quali piaceri si dovrebbero supporre veri [...]? Quelli che riguardano i cosiddetti bei colori e le figure [...] e tutte quelle cose la cui mancanza non comporta sensazione né dolore [...]. Per bellezza delle figure [...] intendo dire qualcosa di retto [...] e di circolare e le superfici e i solidi [...]. Queste figure, infatti, non le dico belle in relazione a qualcosa [...], ma sempre di per sé belle per natura [...]. Ad essi aggiungiamo ancora i piaceri riguardanti quanto viene appreso (Phlb. 51b-52a).12
Nel primo caso, il contesto riguarda l’esigenza di provare che il giusto è più felice dell’ingiusto. E, poiché il solo veramente giusto non può se non essere il filosofo, dal momento che egli solo ricerca l’essenza del giusto, è il filosofo ad avere in sorte la possibilità di un piacere libero da pena. Nel secondo, è ciò che ha in sé misura a garantire la purezza del piacere (Erginel, 2019, p. 75-77). Dunque, l’oggetto di un piacere puro sarà ciò che è esente da alterazione e precede ontologicamente il rapporto soggetto-oggetto instaurato nel mondo del divenire (Erginel, 2019, p. 116). Al contrario, il sensibile genera mescolanza, la qual cosa inevitabilmente comporta l’impossibilità, nell’ambito poetico del verosimile, di forme d’arte realmente pure. Ed è forse per questo che i dialoghi tendono a preferire la forma mista nell’indagine sul sensibile, giacché solo questa descrive il verosimile. Sono dunque miste, come detto sopra, sia la tragi-commedia – popolare come filosofica –, sia la tragedia e la commedia popolari. Solo la tragedia filosofica può essere realmente pura, perché non è al verosimile che essa guarda, ma al vero. Ed è allora qui che la reale radice del piacere si può manifestare.
Una volta ammessa la priorità ontologica dell’eterno, si potrebbe infatti concludere che, così come il piacere puro è ulteriore – e in tal senso asimmetricamente relazionato – rispetto a ogni forma mista di emozione, analogamente la tragedia filosofica, nel suo tendere al mondo delle forme, non può causare dolore, ma solo piacere. Il che, paradossalmente, rende questo genere di tragedia non tragica, almeno nel senso che al tragico attribuiscono i più.13
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Ringrazio i revisori anonimi per i loro consigli. Devo un ringraziamento speciale a Dmitri Nikulin che, nella fase finale della preparazione del contributo, mi ha fornito qualche utile indicazione bibliografica. Dedico queste pagine a Thomas A. Szlezák. Studioso eccezionale e generoso, mi ha sempre supportato, nei nostri scambi epistolari, con suggerimenti preziosi, che sono stati per me fonte di ispirazione.
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Tra gli artifici comici sono certamente da annoverare le reazioni fisiologiche che precedono e inaugurano il discorso di Aristofane, ossia il singhiozzo e lo starnuto (Smp. 185c-e, 189a-c). I discorsi di Aristofane e di Alcibiade presentano, invece, un carattere misto. Il mito dell’androgino ha toni caricaturali che da un lato muovono il riso per il modo in cui l’umanità è descritta, dall’altro lasciano interdetti per il loro riferirsi a una condizione umana effettivamente esperibile e che sembra, tragicamente, senza via d’uscita. Anche il discorso pronunciato da Alcibiade è ricco di motivi chiaroscurali. Da un lato, esso produce effetti inaspettati e satireschi, come è proprio delle commedie. Tuttavia, il fatto che il Simposio venga redatto nel momento in cui il condottiero è già morto è aspetto che non può non provocare nel lettore un senso di estraniazione e riflessione tragica sulla grandezza e caduta dell’uomo.
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Cf. anche la discussione infra.
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Nel quadro del carattere trasvalutativo della tragi-commedia filosofica, mi sembra interessante la proposta di Nikulin (2023, p. 191). Lo studioso, nel concentrare la propria attenzione sul ruolo della maschera dello schiavo all’interno della drammaturgia comica, nota come anch’egli fosse, per quanto a diverso titolo rispetto a Socrate, ἄτοπος. Entrambi strani e stranieri, lo schiavo e Socrate sarebbero accomunati dal fatto di incarnare un’alterità rispetto all’opinione comune, alterità capace, per questo, di rappresentare il motore della trama o del processo dialettico e di preservare la necessaria distanza dall’immedesimazione con quanto rappresentato/detto dagli altri. Da tale punto di vista, Socrate incarnerebbe la suprema maschera della commedia filosofica, per la sua abilità nel ribaltare le situazioni, per la sua resistenza ad adeguarsi alla communis opinio, la quale avrebbe voluto la morte come espressione massimamente tragica della vita sensibile, per la sua insistenza nel dirigere lo sguardo sempre altrove, anziché fissarlo su ciò che immediatamente appare come vero ai più. È il caso tuttavia di precisare che l’appropriazione, da parte di Platone, di simili maschere comiche innalza il comico popolare a tragi-comico filosofico, nella misura in cui la distanza tra lo schiavo e Socrate è determinata dalle diverse cause dell’estraniazione. Se nel primo caso esse si richiamano a una topologia orizzontale e geograficamente delimitata, nel secondo rimandano a una topologia verticale, che si appella all’alterità di livelli epistemologici e ontologici. Il fatto che nel Teeteto Talete, maschera dietro cui si cela Socrate, venga deriso da una servetta potrebbe essere la spia di questa mancata identificazione fra i generi. Qui, infatti, la schiava non incarna l’altro dall’opinione comune, ma diventa, ella stessa, lo spirito dell’opinione comune.
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È significativo che le componenti tragi-comiche del Simposio emergano soprattutto nei discorsi di quanti, in una prospettiva ontologica, non hanno ancora pienamente colto il vero. Dunque, che si tratti di forme para-comiche o para-tragiche, esse conservano quei caratteri misti che solo il narratore-filosofo può comprendere causalmente.
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7
È il caso di ribadire che le forme poetiche non vengono allontanate in quanto tali, ma in quanto produttrici di errore (Burnyeat, 2012, p. 54), il che spiega in che misura Platone possa ospitare nella kallipolis la poesia, purché essa sia di vantaggio alla vita (R. X 607d; Giuliano, 2005, p. 93, 99-100), e concedere la rifondazione della drammaturgia a opera dei filosofi, la cui conoscenza può garantire il necessario antidoto contro i rischi della mimesi poetica (Ferrari, 2012).
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8
Cf. Phlb. 39b, dove il pittore diventa metafora delle impressioni che si dipingono nell’anima e che potrebbero essere mera imitazione di quelle vere.
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9
Per tale complessa questione rinvio alla ricostruzione del dibattito in Erginel, 2019.
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10
Cf. supra n. 8.
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11
Se ogni forma della drammaturgia popolare risente della mescolanza, perché il bando senza appello sembra riguardare soprattutto la commedia? La ragione risiede forse nel fatto che la tragedia, come si è sopra sottolineato, può almeno proporre delle mistioni emotive moralmente non censurabili, nel caso in cui vengano imitate le migliori forme di vita. La commedia, invece, stimola le forme di mescolanza peggiori, in virtù dei caratteri che rappresenta sulla scena.
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12
Nelle linee successive del Filebo il discorso si complica, in quanto viene chiamato in causa il dolore che potrebbe risultare dalla dimenticanza di quanto appreso. La questione non viene approfondita, ma si insiste in ogni caso sull’idea che la conoscenza in sé non è commista a dolore. Anche se il ruolo della reminiscenza non è in modo immediato oggetto di trattazione, si può presumere che l’intento di Platone sia suggerire che, per quanto nel desiderio di conoscere sia sempre insita una forma di mancanza che, inevitabilmente, causa dolore, il conoscere attualmente è privo di simili mescolanze, tant’è che esso viene riconosciuto essere come una condizione propria di una esigua minoranza. Quella, evidentemente, libera dalla schiavitù del sensibile.
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Un discorso separato meriterebbe la scena nel Fedone (Phd. 117c-e) in cui, al pensiero della morte di Socrate, la mescolanza di dolore e piacere tra gli allievi occupa una condizione intermedia fra la tragi-commedia – considerata da una prospettiva filosofica – e la tragedia filosofica. In questo caso, infatti, il piacere – concepito alla luce dell’idea che, di fatto, ciò che è veramente Socrate non morirà – è intervallato dalle scene di pianto dei presenti. Tuttavia, il rimbrotto di Socrate, che ricorda di avere allontanato le donne proprio per evitare queste forme di eccesso, potrebbe in un certo senso alludere a una situazione liminale in cui la conoscenza degli allievi necessita ancora di essere perfezionata ma, nel suo lambire la condizione descritta dalla “tragedia più bella”, ha già preso le distanze da quelle forme miste che paiono essere favorite soprattutto dalla completa o quasi-completa ignoranza della causalità intelligibile.
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Disponibilità dei dati
Non applicabile.
Edited by
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Editora:
Pilar Spangenberg
Data availability
Non applicabile.
Publication Dates
-
Publication in this collection
01 Sept 2025 -
Date of issue
2025
History
-
Received
17 Oct 2024 -
Accepted
27 Nov 2024 -
27 Oct 2025
