Non so se ci troviamo, come dice l’amico Cordero nella sua presentazione al libro, di fronte a un nuovo Parmenide (ogni cosa “completamente nuova” in effetti ha delle radici ben profonde nell’humus culturale nel quale siamo immersi e del quale ci nutriamo). È certo però che ci troviamo di fronte ad uno studio molto serio, ben documentato e argomentato, che si presenta come una ricerca a partire dalle testimonianze antiche. E in effetti uno dei pregi di questo libro è proprio l’analisi delle più importanti testimonianze su Parmenide, in particolare per ricostruire la sua teoria della doxa. Ma andiamo con ordine.
Il libro si articola in sei capitoli, più un annesso con la proposta di un nuovo ordine dei frammenti rimastici. Conte comincia con osservare che il pensiero di Parmenide abbraccia campi che noi, oggi, chiamiamo ontologia, cosmologia, logica e fisica, collocando, da un lato, l’Eleata al di qua di una chiara distinzione di queste discipline, ma allo stesso tempo all’origine del loro costituirsi come discipline autonome. E questo mi sembra corretto. Ma nell’analisi di Conte uno spazio ampio è dedicato, come viene indicato del resto dal sottotitolo del volume, alla trasmissione del testo parmenideo a partire perlomeno dal sec. XVI, e all’esame delle principali testimonianze antiche sul testo. In particolare, un’attenta analisi viene fatta dell’importante testimonianza di Simplicio che, come è noto, è la fonte di molti versi parmenidei. Conte nota come l’esistenza di una cosmogonia parmenidea, sottolineata da Simplicio, è attestata anche da altri autori, come per esempio Plutarco. La testimonianza decisiva di Simplicio è nel commentario al De Caelo (pp. 73 sgg.): Parmenide avrebbe stabilito la differenza ontologica tra “ciò che è realmente” (dal quale è giustamente esclusa la generazione) e le cose sensibili e generate (pp. 76, 81). Per Simplicio i due principi sono i fondamenti cosmici dell’universo formato, e allo stesso tempo i fondamenti gnoseologici della conoscenza umana. Anche se in genere Simplicio interpreta il testo con occhi platonizzanti (pp. 90 sgg.), nella sua testimonianza il riconoscimento del valore positivo della doxa non potrebbe essere più enfatico (p. 71).
Ma anche le altre due fonti importanti sul pensiero di Parmenide, quelle di Platone e di Aristotele, sono analizzate con attenzione. Giustamente l’Autore sottolinea come il sorgere dell’immagine di un Parmenide monista si trova in Platone: si esaminano le occorrenze del Teeteto, del Parmenide e del Sofista. La rappresentazione dell’eleatismo in Platone (pp. 115 sgg.) viene poi ripresa nella testimonianza di Aristotele che parla di un radicale monismo (pp. 129 sgg.) e sostiene che parlare di ciò che è come uno e immobile non è certo un’indagine sulla natura (p. 132). Ma la strategia della confutazione aristotelica, in generale, come ben sottolinea Conte, consiste nell’imporre ai predecessori distinzioni concettuali di cui essi non sarebbero stati coscienti, come per esempio la distinzione tra atto e potenza (pp. 139-140). L’Autore continua poi con l’esame di alcune importanti interpretazioni moderne, a cominciare da quella dello Zeller: la doxa viene vista come un insieme di dottrine ipotetiche, fondamentalmente estranee a Parmenide, da cui deriva una svalorizzazione del valore teorico della doxa e una visione dicotomica del pensiero dell’Eleata, e questo contro tutte quelle testimonianze che stabiliscono invece una concordanza tra le due parti del poema, e quindi un valore positivo della doxa. Si può dire che il primo a porre le basi per una “riabilitazione” della doxa e quindi della seconda parte del poema sia stato il Reinhardt; ma del resto, come nota giustamente Conte, l’insufficienza dello schema dicotomico era evidente già nei versi finali del fr. 1, 28-32. Il prologo, quindi, non è l’introduzione ad un poema diviso nettamente in due parti, una positiva, l’esposizione della verità, ed una negativa, l’esposizione dell’errore o delle opinioni. L’opposizione non è tra vero e falso, ma tra stabile, associato alla verità, e assenza di stabilità, associata alle opinioni (p. 44).
(Una parentesi. A p. 50 Conte accenna ad una interpretazione di Parmenide che pure ha avuto l’avallo di importanti studiosi. Si tratta di vedere nel poema fondamentalmente il racconto di una esperienza religiosa, con tutti gli aspetti ad essa annessi, rivelazione, salvazione, purificazione, iniziazione, mistica. È un’interpretazione molto lontana dalla mia, e credo anche da quella di Conte, ma vale la pena ricordare che essa fu propria anche di uno dei più importanti studiosi del pensiero greco nel secolo scorso, lo Jaeger, che parlò di Parmenide come di uno “spirito religioso” - La teologia dei primi pensatori greci, tr. it. Firenze 1967 - anche se poi ad un certo punto ammise che il “mistero” di Parmenide non è che “pura ontologia”. Una rappresentante oggi di questa tendenza è la Gemelli Marciano - M. Laura Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, Düsseldorf 2007; Parmenide: suoni, immagini, esperienza, Academia Verlag, Sanky Augustin 2013 -, che riprende, accentuandole, le tesi di Burkert e di Kinsley. E, visto che mi trovo in questa parentesi, mi permetto di aggiungere alla pur ricca bibliografia di Conte, i nomi di altri tre studiosi. Innanzi tutto, l’importantissimo studio di G. De Santillana, Prologo a Parmenide, in «De Homine» nn. 22-23/1967, pp. 3-50, poi ristampato con altri saggi nel 1971, che sottolinea con efficacia l’immagine proprio di un Parmenide physikòs, presente nella dossografia antica ma per tanto tempo disconosciuta, e quindi di un Parmenide alle origini del pensiero scientifico. Sulla linea di De Santillana e di chi scrive, si veda anche G. Cerri, Parmenide di Elea. Poema sulla natura, Milano 1999. E infine gli studi di A. Capizzi, Introduzione a Parmenide, Roma-Bari 1975, La porta di Parmenide, Roma 1975, che enfatizzano - forse troppo - un Parmenide pensatore politico più che scienziato e filosofo).
La sezione della cosmogonia, dunque, la cosiddetta seconda parte del poema, non è un insieme di opinioni false, ma una esposizione delle origini comuni del cosmo e degli esseri umani (p. 73), che spiega anche il sorgere dell’intelligenza negli uomini (fr. 16). La percezione umana è spiegata a partire dal fulcro costitutivo di tutti gli “esseri” che si incontrano nell’universo attuale, conoscibili perché sia gli oggetti che gli organi della conoscenza hanno un’origine comune che rimonta all’opposizione elementare di Luce e Notte (pp. 88-89), e questa è certamente una novità introdotta da Parmenide. Non ci si può ostinare quindi a vedere nella cosmogonia una dottrina falsa: il suo obiettivo principale è offrire una organizzazione “scientifica” dell’esperienza, che è assente nelle opinioni ordinarie (p. 173). I binomi nascere e perire, essere e non essere, l’alternarsi delle apparenze sono intese come appartenenti al dominio dell’esperienza e delle abitudini dei mortali (pp. 177-178), poiché l’abilità a stabilire relazioni, analogie o congetture è lontana dalla mera opinione (p. 181). Ci sono chiari indizi che Parmenide si è appropriato dei nuovi saperi astronomici, geografici, biologici, fisiologici e embriologici della sua epoca: cfr. B12, B14-15, B18 (p. 199), per cui Parmenide si può considerare in certa maniera come continuatore dell’investigazione ionica della natura (p. 198). La caratteristica di Parmenide è quella di essersi servito di un veicolo tradizionale, la poesia, per trasmettere contenuti filosofici e scientifici nuovi, e quindi per trasformare i suoi significati tradizionali (pp. 221-223, 241) (qui mi permetto di ricordare il bel volume di H. Pfeiffer, Die Stellung des Parmenideischen Lehrgedichtes in der epischen Tradition, Bonn 1975, che bene ha sottolineato la carica di novità che è sottesa alla struttura poetica del poema parmenideo).
Mi pare forzata invece l’affermazione di Conte che nel poema non si parli di ta eonta. È vero che l’espressione non si trova nei versi che ci sono rimasti, ma non si può dire che il concetto sia assente. Conte ammette infatti che le cose che esistono, i fenomeni particolari oggetto delle esperienze umane, sono indicate col vocabolo panta, che indica appunto tutte le cose che sono. Del resto in B7.1 si dice che non esistono i me eonta, il che significa implicitamente che esistono gli onta, e non credo che Parmenide intenzionalmente eviti di chiamare eonta i panta per non assimilarli in qualche modo a to eon (come sembra supporre Conte, a p. 195, dove dice appunto, giustamente, che il concetto di to eon non può essere applicato alle cose individuali). In effetti è detto chiaramente che l’errore dei mortali consiste appunto nel dare a to eon i nomi che competono alle cose particolari, come per esempio nascere e morire, cambiare luogo e mutare (B8.38-41), e viceversa dare i nomi di to eon alle cose che invece nacquero, sono, divengono ed avranno una fine (B19). E non mi pare nemmeno che il vocabolo ta eonta ha già all’epoca di Parmenide un uso tecnico per designare le entità fondamentali costituenti dell’universo, e Conte cita Empedocle e Diogene di Apollonia (pp. 99-101, 194), che però sono posteriori a Parmenide.
Una questione interessante è quella che Conte tratta alle pp. 161-168, dove si domanda se il non essere in Parmenide deve essere inteso in senso assoluto, o c’è una specie di non essere relativo, in opposizione al concetto di essere. Per l’Autore ci sarebbero ragioni per ammettere qualche specie di non essere relativo, dopo l’analisi del non essere svolta in B8.6-21. E sono giuste, infine, le considerazioni che Conte fa sul problema del linguaggio, del “nominare le cose”. Lungi dal considerarla un’attività di per sé erronea, come pure è stato sostenuto da molti, Conte sottolinea come il linguaggio determina proprio il modo di apprendimento e di conoscenza dei mortali; l’attività di nominare per conoscere è degli uomini che “stabilirono le forme” e distinsero ciascuna cosa da tutte le altre (cfr. B19; pp. 183-184, 189). Il problema sarà poi splendidamente ripreso da Platone nel Simposio: caratteristica propria del linguaggio è quella di dare un’apparenza di identità e di permanenza a cose che non le hanno; il linguaggio tenta di fissare nei nomi ciò che possiede un’esistenza transitoria, per esempio col dire che un uomo è sempre lo stesso, mentre tutte le sue parti, il suo corpo, ma anche il suo pensiero, le sue conoscenze, cambiano sempre. Ma è una caratteristica ineliminabile del linguaggio: l’importante è averne coscienza.
Bibliografia
Edited by
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Editores
Celso de Oliveira VieiraPedro Mauricio Garcia Dotto
Publication Dates
-
Publication in this collection
24 Mar 2025 -
Date of issue
2025
History
-
Received
21 Mar 2023 -
Accepted
01 Dec 2023
