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La città-rifugio: una declinazione dell'accoglienza tra solidarietà e autonomia

Refuge city: a declination of hospitality, between solidarity and autonomy

Riassunto

La relazione tra migrazione e città - lo spazio urbano e i suoi abitanti - è in continua evoluzione, ed è condizionata da fattori storici, geografici e politici sempre particolari. Nel corso degli ultimi decenni, tuttavia, in ragione di un accesso differenziale alla mobilità umana, opposto a una sempre maggiore rivendicazione di questa mobilità per ragioni diverse, l'idea stessa di “straniero” e di “migrante” sono andate modificandosi. Di fronte al ripiegamento identitario di ordine immunitario e fondato su paradigmi di nazionalità e cittadinanza, si configurano progressivamente soluzioni ed immaginari di coabitazione e interazione, in particolare a livello locale con la nozione di Città-rifugio, impostati secondo logiche di autonomia e di solidarietà.

Parole-chiave
Città-rifugio; ospitalità; solidarietà

Abstract

The relation between migration and the city - the urban space and his population - is constantly evolving, and is conditioned by specific political, geographical and historical factors. Nevertheless, over the last decades, due to the differential access to human mobility and in contrast with an increasing demand for this mobility for different reasons, the idea of foreigner, of migrant, has been changing. Faced with an identity “immunitarian” withdrawal, based on the paradigms of nationality and citizenship, different solutions of cohabitation and interaction have been progressively configured. In particular, in the local scape the notion of City of Refuge is oriented around solidarity and autonomy.

Keywords
Refuge City; Hospitality; Solidarity

La questione articolata della relazione tra im/migranti e città, intesa come spazio urbano ma anche come la comunità che lo abita (che include a diverso titolo anche gli stranieri residenti) e gli attori che la amministrano, ha inevitabilmente una profondità storica ed una ampiezza geografica difficili da analizzare qui nel loro complesso; anche perché, preso atto di trend e delle configurazioni più diffuse, ogni situazione è caratterizzata comunque inevitabilmente da contingenze specifiche.

Perché da una parte le traiettorie e le esperienze di migrazione sono sempre (anche) singolari, ed estremamente eterogenee, dall’altra perché le città sono, per tipologia e dimensione, per posizione geografica o caratteristiche storiche e culturali, diverse. Infine perché la relazione di una città con la (sua) migrazione, con la migrazione che la riguarda direttamente, vanno contestualizzate in uno scenario geo-politico specifico, e considerate anche in relazione ad altri livelli politici, come lo statale ed il sovranazionale.

Tuttavia, la recente, e non risolta, "crisi migratoria" che interessa l'Europa, e che risulta piuttosto essere una crisi delle politiche e dei principi di accoglienza, evidenzia alcune variazioni significative nell'economia di questa relazione: a partire dall’"evoluzione" della figura stessa del migrante e della sua "presenza" nello spazio pubblico. Fino alla possibilità di ridefinire le condizioni non solo dell'accoglienza ma anche della coabitazione - attraverso l'accoglienza - all'interno di una comunità urbana.

Autoctonia e alterità nello spazio urbano

In termini generali, la relazione tra una città, la sua comunità, e i "suoi" stranieri, interroga una delle coppie dialettiche fondamentali della letteratura antropologica: in effetti, la relazione tra identità e alterità, nonostante la decostruzione della nozione di identità da un punto di vista "etico" (il punto di vista delle scienze sociali), già a partire dal seminario organizzato da Lévi-Strauss nel 19771 1 LEVI-STRAUSS, Claude (dir.). L’identité. Séminaire interdisciplinaire dirigé par Claude Lévi-Strauss, professeur au Collège de France, 1974-1975; BAUMAN, Zygmunt. Intervista sull'identità; REMOTTI, Francesco. Contro l'identità. , rimane una delle contrapposizioni più interpellate a livello "emico" (il punto di vista degli attori sociali).

Il confronto tra un "noi" (interno) e un "loro" (esterno), che si polarizza evidentemente poi in una miriade di alternative e di livelli possibili, trova una delle sue più veementi espressioni quando prende una connotazione spaziale, mobilizzando l'immaginario legato alle ”radici”2 2 BETTINI, Maurizio. Contro le radici. Tradizione, identità, memoria; DI CESARE, Donatella. Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione. , e andando ad alimentare miti delle origini e di autoctonia3 3 LOREAUX, Nicole. L'autochtonie: une topique athénienne. Le mythe dans l'espace civique; BROSSART, Alain. Autochtone imaginaire, étranger imaginé: Retours sur la xénophobie ambiante. spesso funzionali all'irrigidimento di posizioni immunitarie4 4 ESPOSITO, Roberto. Immunitas: protezione e negazione della vita. , di pratiche e politiche escludenti.

Se è a livello dello stato nazionale - la patria - che assistiamo all’esacerbazione di queste posizioni, all’elaborazione di una retorica dell'identità appunto nazionale, destinata a puntellare con miti fondatori una comunità immaginata5 5 ANDERSON, Benedict. Imagined Communities Reflections on the Origins of Nationalism. , è interessante osservare come, anche a scala ridotta, questo meccanismo entri in gioco per sancire e determinare livelli minori, e concentrici, di appartenenza. E dunque anche di “esclusione”, di differenziazione rispetto a un'alterità “vicina”.

L'Italia, con la sua storia politica frammentata, e articolata intorno alle alterne vicende di signorie e potentati locali, di città stato e di autonomie municipali, rappresenta forse in Europa, insieme al caso dell'organizzazione in polis della Grecia classica, uno dei casi più significativi di una costruzione identitaria “in abisso”, di livelli di appartenenza concentrici che vanno dalla scala regionale (il Veneto veneziano), a quella provinciale organizzata intorno ai capoluoghi fino ad arrivare a contrapposizioni comunali e intercomunali, tra paese e paese.

Ma è evidente che situazioni comparabili si possano repertoriare un po' ovunque, nella misura in cui diventa possibile rivendicare da parte di una collettività una presenza originaria, atavica su un territorio a discapito di altri, vicini, o più o meno nuovi “arriva(n)ti”. Considerando questa proiezione in abisso, possiamo convenire che ogni “noi” ha un'alterità, prossima o remota (o gradi diversi di alterità) con cui confrontarsi e in relazione alla quale definirsi come “unità”: il che significa dire, di riflesso, che siamo sempre, anche noi, gli stranieri di qualcuno. E anche che, potenzialmente, ogni identità collettiva è sempre frazionabile, se l'obiettivo è quello includere qualcuno escludendo un altro, secondo un modello differenziale che non fa altro che moltiplicare le frontiere e le linee di frattura6 6 MEZZADRA, Sandro, NEILSON, Brett. Border as Method, or, the Multiplication of Labor. .

Detto questo, è a scala urbana, o comunque a livello di una collettività localmente connotata, che, attraverso l'abitare comune, il condividere una spazialità e l’articolare pratiche di prossimità, si costituisce una comunità (ideologica o concreta, della prassi), ed è a questo livello che si testano in modo più concreto l’apertura e la permeabilità verso l'alterità, o piuttosto dinamiche di ripiegamento identitario.

I “vicini” in sé, a diversi livelli, possono rappresentare in qualche sorta un'alterità “statica”, con la quale ci si confronta a distanza, o temporaneamente, con la quale si commercia o si combatte (come si evince da una querelle tra Lévi-Strauss e Clastres in merito alla “Archeologia della violenza” di quest'ultimo) e attraverso la quale paradossalmente ci si “costruisce”; tenendo presente comunque che anche in queste situazioni di confronto la relazione dialettica all’altro è sempre centrale, e le pratiche di metissage, ufficiali o meno, continue: basti pensare alle pratiche rituali di “incorporazione”, simboliche, come nelle “adozioni dei nemici” dei nativi americani, e concrete (cannibalismo)7 7 VIVEIROS DE CASTRO, Eduardo. Cannibal Metaphysics. .

In un certo senso, ogni comunità, per quanto sia “idealmente” costruita intorno a forme di appartenenza identitarie, ed a meno che non si faccia riferimento ad un nucleo sociale completamente isolato dal resto dell'umanità, ha nel suo passato, nel suo presente o nel suo futuro una intersezione con l'alterità, uno o più momenti in cui il presupposto “noi” e il suo altro relativo si incontrano, si fondono e si ridefiniscono.

In una “teoria degli insiemi sociali”, la tensione costante, e l'osmosi possibile tra il dentro e il fuori, gli scambi ritualizzati e formalizzati, hanno come estremi, da una parte l'estensione del sé all’infinito, come nella prospettiva “imperiale”, inaugurata dal concetto di cittadinanza romana, inclusiva, o meglio includente attraverso lo strumento del diritto8 8 CACCIARI, Massimo. La città. , e dall'altra lo spettro dell’invasione, dove l'identità soccomberebbe alla pressione di un'alterità capace di sopraffarla e di annichilirla.

Ora, sappiamo bene che si tratta di situazioni-limite, che non rientrano nella norma delle relazioni tra comunità e collettività che in maniera generale si incontrano, e che sviluppano nel tempo forme e modi di contatto, di ibridazione e di reciprocità. Ma sappiamo anche, e ne facciamo l'esperienza quotidianamente da alcuni decenni, che i ripiegamenti identitari9 9 In contrapposizione e in tensione rispetto a prospettive universaliste e cosmopolitiche più o meno utopiche. , legati a fattori contingenti, spesso economici e sociali, vanno di pari passo con l'erezione e la fortificazione di frontiere, con una militarizzazione dei confini del noi nell’illusione di poter allestire, e con l'ossessione di dover difendere, uno spazio chiuso, omogeneo se non addirittura “puro”, nella misura in cui si continuano a tollerare distinzioni (di sostanza o di diritti) su una presunta base razziale o etnica.

A scardinare le illusioni identitarie, e dunque a causare il conseguente ripiegamento immunitario, condito di xenofobia e di riemersioni di fascismi a diverso titolo, contribuisce negli ultimi decenni10 10 SASSEN, Saskia. The Global City: New York, London, Tokyo; AGIER, Michel. Le Couloir des Exilés, etre étranger dans un monde commun;BALIBAR, Etienne. Citoyen sujet et autres essais d'anthropologie philosophique;TASSIN, Etienne. Un monde commun. Pour une cosmopolitique des conflits. la riconfigurazione costante, disomogenea e discontinua dell’orizzonte mondializzato come resto problematico di una “globalizzazione” neoliberale fallimentare (come la prospettiva “glocal” declinata essenzialmente per un’élite cosmopolita): uno scenario in cui uno degli snodi politici critici è rappresentato dall'accesso differenziale alla mobilità umana, oggetto di rivendicazioni sempre più diffuse, di politiche di contenimento e di controllo sempre più violente, che hanno un’impatto significativo anche sull’orizzonte giuridico di riferimento, dal diritto internazionale al quadro più generale dei diritti umani.

Ma questo confronto con una “volontà” di mobilità umana, che travalica i limiti della geopolitica tradizionale, che manifesta la categoria umana del migrante come figura in divenire, “in movimento”, va a destabilizzare “banalmente” anche un altro dei dittici classici dell'antropologia, oltre a quello tra identità e alterità: quello tra comunità “stanziali”, e comunità, gruppi “nomadici”.

Non si sta ovviamente semplicisticamente riducendo la migrazione ad un nomadismo culturale o ad un'erranza sociale; si intende invece sottolineare come la mobilità umana contemporanea, come le rivendicazioni concrete di una libertà di movimento (libertà di lasciare un paese e di stabilirsi in un altro), a dispetto dei dispositivi di contenimento, di respingimento, di gestione messi in campo dai paesi di transito o di destinazione, contribuiscano a far vacillare le retoriche dell’appartenenza fondate sulla presunta autoctonia, con il loro “contenitore” nazionale e con con i loro paradigmi “irrigiditi” di cittadinanza (ius soli e ius sanguinis).

Inevitabilmente la città, lo spazio urbano che da sempre “concentra” le popolazioni, diventa il luogo pragmatico e materiale di confronto dialettico, e di interazione politica e culturale, tra una comunità che si rivendica “del luogo” (e che ne rivendica la proprietà), e persone - stranieri a diverso titolo - che questo luogo lo attraversano, o arrivano a co-abitarlo. Data dunque una comunità locale (un villaggio, una città, una metropoli, con le loro differenze di scala), è chiaro che in genere si delineano diversi gradi di “estraneità”, correlati a elementi culturali, storici diversi, e non slegati dalla ”funzione” e dal ruolo che questi stranieri andavano e vanno ad assumere all'interno della società.

Assimilazione, integrazione, incorporazione

Senza ripercorre qui la vasta letteratura classica relativa ai processi di esclusione/inclusione progressiva e di accesso alla cittadinanza in diverse società storiche11 11 ISIN, Engin F. Being Political: Genealogies of Citizenship. , o analizzare l’evoluzione della figura dello straniero in contesti culturali diversi12 12 SIMMEL, Georg. Digression sur l’étranger; ZANNINI, Andrea. Venezia città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec. , è importante riflettere brevemente su come la presenza dello straniero in ambito urbano abbia da sempre rappresentato un elemento di interesse - culturale, sociale, economico - proprio nella misura in cui rappresenta il confronto di una identità/collettività con un'alterità che l'attraversa e che la integra.

In particolare è utile considerare come la sua presenza, normata e sottoposta a regole rigide e ad una esplicita condizionalità, a forme di maginalizzazione e subalternità, sia stata fino a qualche anno fa “gestita” nell’ottica, principalmente economica, di una reciprocità, all’interno di un sistema in cui l'accesso alla mobilità non era generalizzato/generalizzabile e lo “spostamento” di forza-lavoro era un criterio determinante per articolare politiche di e/immigrazione. In questo senso, buona parte delle ricerche svolte sulle comunità di stranieri in aree urbane ad esempio in Francia o in Gran Bretagna si sono concentrate sulle condizioni di inserimento di “immigrati” provenienti da “ex-colonie”13 13 ALTHABE, Gérard. Production de l'étranger, xénophobie et couches populaires urbaines; SAYAD, Abdelmalek. La double absence. Des illusions de l'émigré aux souffrances de l'immigré. , o hanno esplorato, in paesi orientati verso sistemi multiculturali (US, Canada, Australia) gli insediamenti di comunità “etniche” specifiche (ad esempio quella italiana).

Molta della sociologia e dell'antropologia urbana (scuola di Chicago) ha concentrato la propria attenzione proprio sulle comunità “etniche” o “etnicizzate”, e conseguentemente sulla ghettizzazione a livello spaziale, in paesi caratterizzati da “flussi” di immigrazione strutturati secondo logiche essenzialmente di mobilità della forza lavoro, interessandosi poi alle condizioni di esistenza di queste comunità all’interno dello spazio pubblico, alle loro interazioni e ai vari processi di inserzione (o di marginalizzazione) secondo i paradigmi dettati dalla società di accoglienza, che si sono adattati alle esigenze dettate da forme di convivenza perennizzate.

A questo proposito è interessante osservare come ad esempio in Francia si sia progressivamente passati almeno nominalmente dalle teorie dell’“assimilazione”, decisamente di impronta coloniale, a modalità relativamente più “rispettose” della diversità culturale (integrazione). In altri contesti, ed in particolare in riferimento alle pratiche di integrazione a livello locale, si ricorre alla nozione di incorporazione, nella misura in cui gli elementi “stranieri” vanno a fare parte di un corpo sociale composito, senza che si debba necessariamente insistere sulla “disparità” di legittimità di un sistema maggioritario che sussume elementi minoritari.

Tuttavia, al di là della retorica della convivenza civile e delle libertà individuali all'interno di un orizzonte “repubblicano” e “universalista”, come nel quadro di società strutturalmente multiculturali, è proprio a livello urbano, e specialmente a livello della marginalizzazione metropolitana, che si sono riprodotte e amplificate frontiere e fratture che riposano ancora su base etnica/razziale ed economica. E che, come hanno dimostrato tra le altre le analisi delle sommosse delle periferie urbane in Francia14 14 WACQUANT, Loïc. Parias urbains. Ghetto, banlieues, Etat. Une sociologie comparée de la marginalité sociale. , evidenziano ripercussioni drammatiche sulle seconde e terze generazioni di immigrati, in termini riproduzione dell'esclusione (sociale, economica) e della ghettizzazione.

Ma in generale, le dinamiche di coabitazione e di integrazione sono state per decenni legate ad una concezione della migrazione fondata sulla dualità, tanto problematica come ha messo in luce Sayad, tra emigrazione ed immigrazione. Il quadro normativo all’interno del quale si inscriveva questo fenomeno prevedeva un inserimento, graduale e spesso mai “completo”, di migranti che andavano ad abitare, ovviamente alle condizioni imposte dalle società di arrivo, spazi periferici ma inscritti e codificati nel linguaggio sociale ed urbanistico (la banlieue e le cités in Francia).

Il problema, come è risaputo, è iniziato a porsi indicativamente all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, nel momento in cui all’aumento “teorico” (ideologico) delle condizioni di mobilità delle persone è corrisposta una progressiva restrizione delle condizioni di immigrazione reali, legate a flessioni economiche e dunque alla riduzione della “domanda” da parte dei paesi storicamente di ricezione. Non è un caso che proprio negli anni ‘90 sia emersa in Francia la figura del sans-papiers, l’irregolare amministrativo, dunque l'immigrato non più necessario, estromesso dal sistema produttivo e dunque anche “abbandonato” dal sistema sociale, ed esposto ad espulsioni sempre più sistematiche in ragione della sua inutilità/irregolarità.

In paesi come l'Italia, caratterizzati da una storia secolare di emigrazione e da processi di immigrazione relativamente recenti, queste dinamiche si sono sviluppate tardi, ed in ritardo: la costituzione di comunità di stranieri nelle diverse città della penisola, in relazione allo sviluppo di classiche catene di relazioni, ha dovuto rapidamente fare i conti con una progressiva stretta sulle condizioni di soggiorno, che si è sovrapposta, tra la fine degli anni 90 ed il primi anni 2000, all’emersione di “crisi umanitarie” internazionali che si sono tradotte in una nuova forma di migrazione, inquadrata non più in termini economici di medio lungo periodo, ma emergenziale, orientata a partire dalla pretesa difesa dei diritti umani da parte delle democrazie “occidentali” che ne volevano essere i garanti.

Questa dimensione emergenziale ha progressivamente e radicalmente impattato sulle politiche statali e sovrastatali di gestione del fenomeno migratorio, e di conseguenza anche sulle politiche e sulle pratiche locali di accoglienza. Da una parte con l’implementazione di dispositivi di repressione, di controllo e di confinamento (su tutti, Frontex), e con lo sviluppo di un dispositivo complementare umanitario votato alla gestione “minimale” di una presenza considerata temporanea, transitoria, a partire dalla codificazione e dall'adattamento delle condizioni giuridiche di accesso alla protezione internazionale; dall'altra con l’articolazione di politiche e di pratiche differenziali di accoglienza, in modo da garantire delle condizioni minime di permanenza sul territorio.

Si inizia dunque a parlare di migranti, sottolineando una condizione “progressiva” ed in divenire, e sempre meno “realizzata” (la differenza tra il participio presente “migrante” e i participi passati e/immigrato è piuttosto esplicita). Condizione rivendicata dagli stessi migranti e dalle realtà solidali della società civile come corollario di un diritto alla mobilità per tutti/e, e assunta invece da chi la osteggia come constatazione di una “legittima precarietà” esistenziale, di una condizione transitoria, che si riproduce poi nei limbi della richiesta d'asilo.

La figura del migrante diventa quindi un elemento nuovo nel panorama sociale dei paesi di arrivo/accoglienza, imponendo a livello locale e quotidiano un adattamento delle logiche di coabitazione e di interazione, e una riconfigurazione delle pratiche e delle politiche, nel senso di una convivenza articolata su principi etici da attualizzare (accoglienza, ospitalità), o invece nel senso di una progressiva chiusura quando la comunità di accoglienza perde la prospettiva di reciprocità (l’interesse economico dell'immigrazione) senza trovare alternative sostenibili, intrappolata in retoriche discriminanti fondate su paura, diffidenza e su un senso di superiorità (culturale ecc.) che si traduce in forme umanitarie assistenziali.

Paradossalmente, questa ridefinizione dello straniero come migrante ha un impatto anche sulle comunità straniere già presenti sul territorio: che, secondo la teoria della “porta chiusa dietro di sé”, possono arrivare a osteggiare apertamente l’arrivo di “clandestini” nel nome di un mantenimento di uno status quo che ha sancito la loro, parziale e sempre subalterna, presenza. È eclatante il caso del primo senatore nero, eletto nel marzo 2018 nelle fila del movimento xenofobo della Lega nord italiana e militante da oltre un ventennio, che, come responsabile immigrazione del suo partito, non risparmia interventi pubblici per spiegare la buona e cattiva immigrazione e invocare la difesa dei confini nazionali (“Bisogna aiutarli a casa loro”), e che non può non ricordare alcune essenziali pagine di Fanon. Intanto, la regolarità di status precedentemente ottenuta viene minacciata da una serie di condizioni introdotte in modo pretestuoso. Queste rendono anche la regolarità di chi ha acquisito tale status sempre più dubbia e/o condizionale e revocabile, o semplicemente difficile da confermare mediante il rinnovo del permesso di soggiorno, per esempio, o ampliando le giustificazioni plausibili, eventualmente, per revocare la cittadinanza già acquisita.

Gestione, accoglienza, diffidenza

La premessa iniziale dedicata alle dinamiche generali di relazione tra identità (presupposta, costruita, immaginata) e alterità corrispettiva (il forestiero, lo straniero) in evoluzione, ci permette di considerare come la prima non possa prescindere dalla seconda, e che per immaginare forme progressive e costruttive di convivenza e coabitazione, che si adattino all'orizzonte contemporaneo, in uno spazio comune condiviso - la città - sia necessario lavorare tanto sulle modalità di accoglienza dell’alterità, di chi viene da un altrove, che sulle condizioni di appartenenza ad una “località”.

In particolare, in un frangente storico in cui l’aumento della mobilità internazionale, o del tentativo di accedervi, per ragioni diverse (conflitti, crisi ecologiche, povertà o semplicemente per la volontà di migrare), ed in generale in una fase socio-culturale caratterizzata dall’affermazione di nuove modalità “mondializzate” o de-localizzate, se non sradicate, dell’abitare e del muoversi, imporrebbe non tanto di sviluppare, in ottica conservativa, dispositivi sempre più coercitivi e limitanti per questa mobilità, ma piuttosto di interrogarla e assumerla, nell'orizzonte contemporaneo, come conseguenza di scelte e speculazioni geopolitiche storiche (colonialismo e neocolonialismo in primis): e riflettere a forme di riconfigurazione sostenibile delle forme di mobilità, interazione e abitazione in un contesto aperto e in evoluzione.

Se l’orizzonte statale, più normativo, si organizza e si articola attorno al paradigma dell’appartenenza nazionale ed esplicita la sua logica fredda di selezione esclusiva/inclusiva attraverso il suo dispositivo più violento e meccanico - la frontiera -, su scala più ridotta, a livello municipale o di comunità locale, questa gestione puramente amministrativa, che punta all’essenzializzazione della diversità, lascia il passo, o dovrebbe lasciarlo, a forme necessariamente più personali di interazione, allo sviluppo di relazioni intersoggettive tra “locali” e forestieri (coloro che vengono da “fuori”); relazioni non necessariamente idilliache e da non idealizzare, perché complesse, articolate e contraddittorie, ma che riportano il confronto tra “identità” e “alterità” alla sua dimensione reale, concreta, materiale, che riposa sulle condizioni di coabitazione in uno spazio comune. A livello di governance sovranazionale non si sente allo stesso modo il peso delle situazioni reali che anche i governi nazionali si vedono obbligati a gestire, per cui anche delle autorità ideologicamente contrarie all’immigrazione si vedono obbligate a dare strappi alla regola per motivi di pragmatismo. Queste soluzioni non rientrano nell’approccio massimalista della governance europea, per la quale sono semplicemente “disfunzioni” piuttosto che soluzioni utili che potrebbero indicare eventuali cambi di rotta e/o di impostazione dovuti non a posizioni etiche, ma a un grado ragionevole di pragmatismo (necessario).

Non è un caso che nello spazio urbano e locale il vocabolario asettico, anonimizzante (rispetto alle soggettività) e categorizzante (rispetto alla provenienza) della frontiera statale (“gestione dei flussi”, “accoglienza”, “identificazione”), finalizzato a formalizzare, neutralizzare e “tenere a distanza” la diversità, l'alterità, lasci il posto - almeno parzialmente - ad un lessico più plastico, che traduce e racconta piuttosto la complessità dell'incontro e della relazione possibile.

Quantomeno perché le persone accolte o presenti sul territorio cessano di essere banalmente e meccanicamente gestite come dei semplici dossier (secondo un approccio umanitario assistenziale), o semplicemente invisibilizzate ed escluse dello spazio sociale “ufficiale” (clandestinizzazione), e diventano delle presenze concrete nello spazio, con richieste, con esigenze, ma al contempo con esperienze e con soggettività da condividere con la comunità. Diventano elementi attivi all’interno delle comunità in cui si insediano, diventano abitanti e residenti a prescindere dalla loro condizione amministrativa. Diventano una presenza reale che impone un posizionamento concreto di chi riceve/accoglie, un percorso di inte(g)razione che non compete solo ai “nuovi venuti”.

Posizionamento che va purtroppo dall’inclusione progressiva, dall’accoglienza e da forme di solidarietà spontanee ed organizzate a forme più o meno strutturate e istituzionalizzate di rifiuto e di ostilità. Ma possiamo constatare che l’ostilità prevale spesso laddove la comunità ed i suoi rappresentanti ed amministratori, assecondano in un certo senso l’approccio gestionale, meccanico ed esclusivo, che riduce il migrante a forza lavoro sfruttabile, o a business su cui speculare, limitando il suo accesso ad un orizzonte di uguaglianza giuridica e di interazione sociale, e intensificando le dinamiche di subordinazione e esclusione. Laddove prevalgono rivendicazioni identitarie che contribuiscono a produrre e alimentare il timore per la diversità/alterità, riducendo tutti gli spazi di confronto e partecipando a creare la posizione di “estraneità” della persona migrante nello spazio sociale.

In questo senso, e ritornando per un momento alla riduzione identitaria in abisso, è interessante constatare come allo slogan xenofobo “Prima gli italiani” a livello nazionale, sia corrisposta in Italia una proliferazione di epigoni “local”, come il “Verona ai veronesi” che con rimandi a tradizioni e cultura autoctone giustifica e legittima posizioni apertamente razziste.

C'è chi lotta contro lo sradicamento dei popoli e contro un business che alimenta le casse di organizzazioni criminali e di cooperative dal buonismo di facciata. Poi c'è chi finge di scappare da guerra e fame per sfruttare un assistenzialismo malato concesso da un governo sempre più cieco nei confronti dei reali bisogni del suo popolo. Esistono, dunque, i traditori della patria che si vendono per 35 denari e i finti profughi traditori dei finti benefattori, che fuggono dai loro paesi per chiedere Sky e Nouvelle Cousine.15 15 Cf. <https://www.facebook.com/Verona-ai-Veronesi-753236424788179/>. 09.02.2018.

Benché sia abbastanza noto come nell’Italia del nord l’imprenditoria edile - allo stesso modo che il comparto agricolo nel sud - tragga ingenti benefici dalla “sfruttabilità” di persone, arrivate recentemente o già installate da tempo, in situazione di irregolarità amministrativa o in situazione di marginalità economica e sociale, emerge in questo breve passaggio come, esacerbando pulsioni identitarie “conservative”, le fazioni più intransigenti percepiscano la disfunzionalità e la violenza del dispositivo di accoglienza istituzionale, e le sue derive speculative attraverso il privato sociale, non come una deprecabile gestione meccanica e quantitativa (biopolitica) della vita altrui, ma piuttosto come minaccia per un microcosmo talmente disabituato al confronto con l’esterno da sviluppare evidenti manie di persecuzione, e di invasione.

Recensendo queste manifestazioni di intolleranza, supportate spesso da media locali conniventi, ci si rende conto in particolare che il funzionamento del dispositivo emergenziale di ricezione organizzato per fare fronte alla cosiddetta “crisi migratoria” in EU e in Italia non ha assolutamente come obiettivo quello di creare le condizioni di un insediamento “soft” e “sostenibile” dei migranti in accoglienza, e di un progressivo eventuale percorso di integrazione, dunque di uno sviluppo di una relazione costruttiva tra vecchi e nuovi abitanti. Al contrario, la gestione “prefettizia” che limita i margini di intervento dei poteri locali e che “impone” una presenza “estranea” all’interno di comunità locali spesso impreparate (culturalmente, socialmente, economicamente) ad tale confronto sembra avere come obiettivo quello di inibire e di osteggiare possibili forme di solidarietà e di collaborazione locale, facendo leva appunto su istinti identitari primordiali e su un avversione per il “diverso” direttamente proporzionale alla chiusura della comunità in oggetto. Accentuando invece, se vogliamo, l’insostenibilità dell'accoglienza.

In questo senso, i migranti “imposti” alle comunità locali e alle municipalità senza consultazione e senza preparazione della collettività diventano lo strumento, il mezzo con cui l'istituzione nazionale, sfruttando questo ripiegamento identitario e le tendenze xenofobe, legittima il funzionamento militare-umanitario dei suo dispositivo emergenziale di accoglienza, e giustifica operazioni di empowerment di milizie straniere (Libia) per fermare, con metodi decisamente discutibili, il fenomeno migratorio contemporaneo.

In effetti, il modello di “gestione dell’accoglienza” istituzionale, top-down, risulta contestabile per la sua manifesta volontà di mantenere, in nome dell’emergenza, il dispositivo di controllo e ricezione “impermeabile” alle relazioni con le comunità locali su cui esso impatta concretamente: alimentando in questo modo la frustrazione delle persone in accoglienza, relegate a situazioni liminari di sopravvivenza e di attesa, e la diffidenza e il timore delle comunità locali che, impreparate e incapaci di gestire questa presenza, ne percepiscono esclusivamente l'estraneità:

In arrivo 80 profughi nella contrada da 7 abitanti: “Non c'erano altre soluzioni?”

I migranti saranno ospitati nell’ex base Nato di Erbezzo, vicina a contrada Vaccamozzi, sollevando i dubbi del consigliere regionale Bassi: “Non capisco quale sia la strategia di portare un numero così importante all’interno di una comunità montana”.16 16 Cf. <http://www.veronasera.it/cronaca/80-profghi-7-persone-erbezzo-Vaccamozzi-8-novembre-2017.html>.

I gradi dell'ospitalità

Se il dispositivo militare-umanitario dell’accoglienza “statale” delinea essenzialmente le condizioni unilaterali (politiche in senso amministrativo) con cui l’ente statale decide di concedere (o meno) l’ingresso sul proprio territorio all’alterità17 17 È interessante notare come la riflessione di Derrida sull'ospitalità, ricondotta strategicamente al livello dello spazio urbano e delle comunità locali, nasca all'incrocio tra una prospettiva filosofica ed individuale dell'incontro con l'altro (Levinas) e le considerazioni di politica internazionale, di ordine eminentemente pratico, sull'ospitalità incondizionale elaborate da Kant in "Per la pace perpetua" (1795). , e ne regola la permanenza, le declinazioni dell’accoglienza concreta sul territorio rimandano piuttosto - o anche - alla nozione di ospitalità, ad un orizzonte etico ed alla sua complessità costitutiva. Imprescindibile qui è il riferimento alle osservazioni di Benveniste18 18 BENVENISTE, Émile. Le vocabulaire des institutions indo-européennes. che individua ed analizza la radice comune dei termini ospite (il latino hospes) e nemico (hostis), facendo emergere tutta la potenzialità, in negativo e in positivo, dell’incontro con l'altro, il diverso da sé, che è inizialmente - nel tempo e nello spazio - una relazione aperta, e che si declina solo attraverso l’interazione: secondo forme e modalità diverse, ritualizzate nel tempo, che creano la situazione ed il contesto del l'incontro secondo una dinamica attiva, opposta rispetto alla logica di “sospensione” (e di separazione) che contraddistingue ad esempio il funzionamento del dispositivo di accoglienza dei richiedenti in asilo in Europa19 19 KOBELINSKY, Carolina. L'accueil des demandeurs d'asile. Une ethographie de l'attente. .

Basti menzionare qui i codici di ospitalità del mondo classico greco a cui spesso si fa riferimento20 20 SCHERER, René. Zeus hospitalier. Éloge de l’hospitalité; DETIENNE, Marcel. Comment être autochtone. Du pur Athénien au Français raciné. , e l’esempio dell’accoglienza di Ulisse nella reggia dei Feaci: Ulisse arriva come uno sconosciuto, dopo essersi paradossalmente identificato con “Nessuno” (Outis) (e dunque de-personalizzato) per sfuggire a Polifemo, e progressivamente, attraverso un tempo di emersione e di risoggettivazione, in cui il giudizio è sospeso, può farsi riconoscere e scegliere se proseguire il suo viaggio o legarsi alla comunità di accoglienza (attraverso il matrimonio con Nausicaa, figlia del sovrano dell'isola), secondo un rituale che ricorda anche le pratiche di ospitalità nell’Africa subsahariana descritte de Michel Agier21 21 AGIER, Michel. Commerce et sociabilité: les négociants soudanais du quartier Zongo de Lomé (Togo). Le pratiche di ospitalità, come evidenzia l'etnologo Michel Agier nei suoi seminaire all'EHESS in questi anni, si differenziano culturalmente, ma sono tutte caratterizzate da una dimensione temporale (l'ospitalità è temporanea), una dimensione spaziale (ci sono luoghi specifici, in una casa, in una collettività, destinati all'ospite) e una dimensione materiale, "economica", nel senso che la relazione si "sbilancia" anche attraverso una "presa in carico" dell'ospite da parte di colui che accoglie. .

La relazione che si istituisce, e che implica dei margini di adattamento e di assestamento non solo per l’arrivante, ma anche per chi accoglie, ha la specificità di essere temporanea, e di risolversi in una riconfigurazione, che prevede o l’incorporazione, dunque l’ingresso progressivo in un corpo sociale pre-determinato, o la separazione da esso. In ogni caso, di un’evoluzione della relazione.

Ma si tratta inevitabilmente di un processo più articolato ed impegnativo, per entrambi le parti coinvolte: che richiede per l’arrivante un processo di decodificazione, di traduzione e di variazione di prospettiva, che implica un ruolo attivo, e al contempo un’assunzione di responsabilità; e che richiede per chi accoglie una forma di “esposizione”, di relativizzazione di certezze (culturali, etiche, politiche ecc.), atteggiamenti e (pre)concetti che invece, all’interno di una bolla identitaria autoreferenziale, possono sembrare radicati, saldi, e quindi immutabili. E troppo spesso, per diffidenza, per insicurezza o per paura, per “comodità” o per interesse, sembra invece preferibile rimanere barricati dietro queste identità supposte, e limitarsi ad essenzializzare l’alterità, a mantenerla in una situazione di “estraneità”, a distanza - anche all'interno dello spazio sociale -, instaurare e riprodurre dinamiche di prevaricazione, di subalternità, di discriminazione.

Al di là dell’evoluzione della relazione di accoglienza/ospitalità, che approfondiremo di seguito per introdurre la nozione di città-rifugio, possiamo già stabilire qui un primo assunto: in riferimento all’attuale “gestione” del fenomeno migratorio in Europa, è flagrante la distinzione tra un modello “statale”, che si basa sulla categorizzazione dello straniero, sulla sua “concentrazione “ (Hotspot, centri di accoglienza, centri di identificazione ed espulsione) e sulla sua marginalizzazione22 22 TAZZIOLI, Martina. Containment through mobility: migrants’ spatial disobediences and the reshaping of control through the hotspot system. , ed una prospettiva alternativa, che possiamo definire “locale”, che mobilizza una dimensione di incontro e spesso di solidarietà che si pone come antagonista rispetto al modello istituzionale, e che dunque risulta sempre più criminalizzata.

Di fronte ad una gestione “logistica”, in Francia, in Italia ed altrove, che favorisce lo sviluppo di un vero e proprio business dell'accoglienza23 23 RODIER, Claire. Xenophobie Business. À quoi servent les controles migratoires. e che è volta non solo a non investire, ma a disincentivare e reprimere le possibili interazioni tra comunità locali e persone in accoglienza, in nome di una separazione programmatica, si moltiplicano le iniziative locali volte ad articolare forme di coabitazione e di convivenza fondate sul principio di residenza comune, o comunque ad articolare una interazione dinamica, sicuramente più complessa ma altrettanto costruttiva.

L’approccio “prefettizio” in Italia (e che ha equivalenti in altri paesi europei), già inaugurato nel 2011 affidando la gestione della cosiddetta “crisi migratoria” legata alle “primavere arabe”, alla Protezione Civile, include come abbiamo visto l’imposizione anche a piccole comunità locali di numeri relativamente (proporzionalmente) significativi di persone in migrazione (con status differenti) all’interno di “strutture emergenziali” - Centri di Accoglienza Straordinari - gestiti da privati con diversi livelli di preparazione ed organizzazione; questa pratica, che nel 2016 rappresentava quasi i 3/4 del dispositivo di accoglienza in Italia, ha come caratteristica - e forse anche come finalità - quella di operare secondo il registro dell’urgenza, e dunque in antitesi rispetto ad un processo di accoglienza progressivo che possa sfociare anche in forme di integrazione e di coabitazione prolungata.

Anche - ma non solo - organizzandosi in funzione del fallimentare programma di rilocalizzazione europeo, che era stato presentato dalle autorità europee come complementare all’instaurazione dell'approccio hotspot24 24 TAZZIOLI, op. cit. , e che aveva previsto inizialmente una permanenza transitoria in Italie e Grecia di circa 160.000 richiedenti asilo che dovevano essere in seguito redistribuiti tra i paesi membri, il dispositivo emergenziale consente agli enti gestori di agire spesso in deroga alle basilari condizioni di accoglienza, di erogare un servizio minimo - di sopravvivenza - (che diventa dunque fonte di utili) senza minimamente investire sugli elementi, che potremmo definire provocatoriamente “superflui”, che garantirebbero almeno alle persone in accoglienza di concretizzare la loro presenza, di implementare i margini di agency, di relazione e di partecipazione all'interno del tessuto sociale che ospita i centri.

Di fronte alla più redditizia e più “leggera” gestione emergenziale, che implica la possibilità di trasferire in tempi brevissimi, a costi ridottissimi e senza troppi scrupoli gruppi anche consistenti di persone in accoglienza secondo una logica esclusivamente gestionale di “stoccaggio”, il modello “storico” di accoglienza, organizzato a partire dai primi anni 2000 e fondato sull’implicazione nell’accoglienza delle amministrazioni locali, rappresenta oggi circa il 25% del sistema: lo SPRAR (Servizio di protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) ha in effetti come vocazione essenziale (anche qui con alcune disomogeneità rilevanti) quella di offrire ai richiedenti asilo un percorso di accoglienza più strutturato e prolungato, che dovrebbe consentire loro di attraversare questa fase transitoria in un contesto integrante ed aperto, e dovrebbe mettere in condizione la comunità locale di agevolare e accompagnare questa presenza attraverso l'articolazione di progetti di interazione e di integrazione progressiva. Nel 2016, l’idea del governo italiano, caldamente suggerita dalla Commissione europea (e discussa con comuni, UNHCR e IOM), di una distribuzione sul territorio di “2,5 migranti per ogni 1000 abitanti”, per evitare “concentrazioni” nelle aree di arrivo e l’aumento di atteggiamenti xenofobi, è rimasta una proposta, rapidamente ridimensionata. Indirizzata agli Sprar, da applicare su base volontaria con la “garanzia” che il comune aderente non sarebbe stato successivamente “caricato” di nuove presenze, non ha riscosso il successo auspicato per ragioni che sono da trovare nella “convenienza” economica e nella formula “smart” del modello prefetturale (CAS) che concede ai privati “dell’accoglienza” ampi margini di “libertà” e di guadagno, rispetto alle condizioni economicamente vincolanti e socialmente più impegnative del modello Sprar.

A margine di questo “doppio” modello di accoglienza, non va sottovalutato tuttavia l'enorme numero di migranti che per diversi motivi (mancanza di disponibilità nelle strutture, situazione di irregolarità amministrativa, diniego della richiesta di protezione internazionale, identificazione come “migrante economico” e cosi via) rimangono esclusi da ogni forma ti accompagnamento istituzionale, come mette in luce il prezioso rapporto “Fuori Campo” di MSF sulla situazione italiana25 25 Cf. <http://www.medicisenzafrontiere.it/notizie/news/fuori-campo-mappa-dell%E2%80%99accoglienza-che-esclude>. .

Di fronte a questa dismissione di responsabilità dello Stato nei loro confronti, si assiste, sempre di più a livello europeo, all’organizzazione di forme di solidarietà collettive che talvolta riposano sulla collaborazione delle amministrazioni locali (Riace, Grand-Synthe) che si schierano a fianco dell’accoglienza cercando di “rimediare” alle derive repressive statali e cercando di costituire una rete di città accoglienti: a inizio marzo proprio la città di Grand Synthe ha organizzato una “Convenzione nazionale sull'accoglienza” per federare i poteri locali “ospitali” e le associazioni sul territorio; talvolta queste forme di solidarietà si sviluppano invece in modo autonomo, quando le stesse città rimangono assoggettate alla logica afferente esclusivamente all’ordine pubblico (Calais, Ventimiglia). La società civile, le associazioni, gruppi autonomi di diverso tipo o semplici cittadini allora si attivano per offrire degli alloggi d’urgenza, cibo, abiti, assistenza giuridica e sanitaria, ed in generale sostegno concreto a persone in difficoltà, anche sfidando le delibere locali che osteggiano, ostacolano e criminalizzano queste pratiche.

Forme di solidarietà con la popolazione migrante sempre più diffuse (da Bruxelles à Parigi, dalla Roya nel sud della Francia, a Marsiglia, a Bologna e Roma) e ibride, che dialogano di fatto spesso con i poteri locali, che intervengono a denunciare la latitanza dello Stato e propongono alternative compatibili con il territorio: piattaforme di accoglienza “privata”, reti di solidarietà come Welcome, reti come gli “Stati generali della migrazione” fondati in Francia a fine 2017 e che raccolgono oltre 400 realtà associative; attività riassunte da un vecchio slogan, forgiato anni fa, preso e ripreso da diversi attori locali: “nella mia città, nessuno è straniero”.

Prospettiva, questa, più o meno apertamente osteggiata dalle istituzioni, che come abbiamo visto in precedenza tendono ad ostacolare ogni forma di interazione collaborativa, evitando comunque di assumersi le responsabilità politiche e sociali della non-accoglienza, ed arrivando fino ad attaccare i solidali amministrativamente, con multe o ordinanze locali, o penalmente, come avviene in Francia con il “délit de solidarité“, e a decredibilizzare le ONG impegnate nelle operazioni di soccorso in mare per delegare gli interventi alla guardia costiera e alle milizie libiche.

Nelle sue ricerche attuali sulla nozione di ospitalità, l'antropologo francese Michel Agier26 26 "Anthropologie de l'hospitalité" è il titolo del seminario di Michel Agier tenuto nel biennio 2016-17 e 2017-18 a l'EHESS di Parigi: <https://enseignements-2017.ehess.fr/2017/ue/991/>. , riprendendo una consistente letteratura sul tema, osserva le differenze configurazioni e i differenti “livelli” in cui questa pratica si manifesta e si esplicita: tra un’ospitalità privata27 27 GOTMAN, Anne. Le sens de l’hospitalité. Essai sur les fondements sociaux de l’accueil de l’autre. che si realizza e si esaurisce nello spazio domestico “interno”, ed un’ospitalità pubblica che quando non è strumentalizzata attraverso una traslazione simbolica della dimensione privata si riduce rapidamente a forme di gestione “umanitaria”, Agier individua giustamente il livello intermedio, quello dell’ospitalità “comunale” come il più interessante ed il più performativo, politicamente e socialmente.

Nel programma di ricerca da lui diretto, Babels “quello che i migranti fanno alle città; quello che le città fanno ai migranti”, la questione essenziale, concentrata sulle condizioni di presenza dei migranti nelle aree urbane, una sorta di refugee studies in contesto metropolitano, si è progressivamente orientata sulle diverse configurazioni della relazione migranti/città attraverso l’esame delle molteplici situazioni che si possono repertoriare, in Europa come altrove.

Traiettorie di migrazione contemporanee e città-rifugio

La constatazione essenziale è che da una parte ogni città o comunità locale è diversa, per dimensione, posizione geografica e trascorsi storici, per funzione economica e politica, dall’altra ogni traiettoria di migrazione è sempre individuale (anche quando condivisa) e sviluppata progressivamente sulla base di una concatenazione, spesso drammatica, di eventi e di esperienze.

L’analisi etnografica di queste situazioni eterogenee, che va dalle città di frontiera (Ventimiglia) a quelle di transito, dalle regioni di permanenza transitoria ma prolungata (Parigi) a situazioni logoranti di impasse (Calais), mette in evidenza come la presenza di una popolazione migrante si configuri in relazione a una serie di condizioni presenti/assenti, soggettive o oggettive, spesso instabili o in evoluzione: l’accesso a mezzi di vie di comunicazione e mezzi di trasporto, la prossimità della frontiera, alla possibilità di lavorare per racimolare il denaro necessario per proseguire il viaggio, la tolleranza da parte delle comunità locali, o invece pratiche repressive e aperta ostilità, la presenza di reti di solidarietà tra gli stessi migranti, o sviluppate dalle società di accoglienza, ecc. Evidentemente, la modalità di relazione con lo spazio urbano e con la collettività dipende da queste condizioni, e risulta più o meno agevole, più o meno interattiva e costruttiva, o minimale e diffidente.

D’altra parte, le stesse città/comunità, come abbiamo visto, possono articolare la relazione con la popolazione migrante presente sul proprio territorio in modi molto diversi. Abbiamo menzionato le attività svolte dalla società civile, sotto diverse configurazioni, talvolta con il supporto delle amministrazioni pubbliche, talvolta in opposizione ad esse. Ma quello che è importante rilevare qui è che sta progressivamente aumentando, specialmente in Europa ma anche altrove (US, Canada), il numero di amministrazioni locali, di città che prendono posizione a favore delle popolazioni migranti presenti sul proprio territorio, esplicitamente in opposizione alle politiche repressive statali e sovrastatali (UE), o negoziando con esse come nel caso dei comuni milanesi che nel maggio del 2017 hanno siglato un accordo per impostare in modo concertato un'accoglienza diffusa dei richiedenti asilo sul territorio provinciale28 28 Cf. <http://milano.corriere.it/notizie/politica/17_maggio_18/migranti-80-sindaci-firmano-l-accordo-un-nuovo-modello-milano-dell-accoglienza-50def9b6-3b88-11e7-83da-130c74015a48.shtml>. . Federandosi, come nel caso della rete Solidacities, o agendo in modo autonomo sulla base di pratiche locali specifiche, o ancora cercando di articolare accordi tra città di arrivo/frontiera, come Lampedusa e Lesbos, e città di accoglienza, secondo il progetto di rete di città rifugio lanciato dalla sindaca di Barcellona Ada Colau nel maggio del 2016.

È importante ricordare come la nozione di città-rifugio, che è riemersa sulla scena politica internazionale negli ultimi tre anni, rimandi da una parte a tradizioni classiche, legandosi alle teorie dell’ospitalità29 29 DERRIDA, Jacques. Cosmopolites de tous pays encore un effort; DERRIDA, Jacques. De l'hospitalité(avec Anne Dufourmantelle); PAYOT, Daniel. Des villes-refuge;LEVINAS, Emmanuel. L'au delà du verset. Lectures et discours talmudiques. e dall’altra si sia già fatta luce, in anni recenti, proprio una fase di transizione storica ed economica, l’inizio degli anni ‘90, segnati da una parte da una “mondializzazione” progressiva, dall’altra dalla progressiva limitazione della mobilità umana, sempre più ricondotta a orizzonte di sopravvivenza.

Se la rete delle città-rifugio, fondata nel 1994 dal Parlamento Internazionale degli scrittori, aveva come sfondo una riflessione sulla nozione di ospitalità relativamente idealizzata, “letteraria” se vogliamo, e difficilmente conciliabile con la freddezza geopolitica della nascente Unione Europea se non prevedendone uno stravolgimento in termini politici e culturali, le mie ricerche mi hanno portato ad approfondire alcuni casi “minori”, ed in particolare la vicenda della città di Venezia che negli stessi anni ha dovuto, giocoforza, confrontarsi con l’arrivo di un numero, importante per l’epoca, di profughi provenienti da una ex Jugoslavia martoriata da un conflitto fratricida. E che ha saputo, coinvolgendo la collettività (comitati di quartiere, cittadinanza) e grazie ad un’apertura “visionaria” di alcuni suoi amministratori e all’impegno di una società civile reattiva, costruire praticamente dal nulla un progetto di accoglienza indirizzato a una collettività di migranti che il sistema normativo italiano non aveva ancora saputo “normalizzare” e definire, e dunque inquadrare in categorie giuridiche e amministrative.

Tra il 1992 e il 1993, di fronte alla proliferazione di accampamenti spontanei nelle aree periferiche della città, il comune di Venezia raccoglie le 130 famiglie di profughi recensite sul territorio in un parcheggio a San Giuliano e nella Villa Marocchesa di Mogliano, e successivamente nei centri di prima accoglienza di San Giuliano e Zelerino30 30 San Giuliano è un quartiere periferico di Mestre, in prossimità del ponte della Libertà che connette la città di Venezia alla terrraferma. Mogliano Veneto e Zelerino sono due paesi integrati nell'area metropolitana di Venezia. . La reazione attiva della municipalità e della collettività risponde da una parte ad un’urgenza concreta, quella di organizzare questa presenza sul territorio del comune (che nel 1992 contava circa 310.000 abitanti31 31 La popopolazione del comune di Venezia nel 1992 contava 309.982 unità (cf. <http://www.comune.venezia.it/archivio/4055>.). ), dall’altra alla volontà di reagire in modo costruttivo, senza rimanere bloccati in una prospettiva di semplice assistenza. La situazione iniziale non è delle più semplici, a causa delle condizioni materiali precarie e delle necessità e delle problematiche di ordine sociale e culturale che si manifestano progressivamente32 32 BRUNELLO, Piero (a cura di). L'urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana. e che obbligano il comune e la collettività ad adattarsi, a organizzarsi e a reagire in modo organico. Nel febbraio del 1992 apre l’“Ufficio immigrati e nomadi”, con la finalità di offrire una tutela giuridica e sociale ai migranti sul territorio e di gestire la costruzione e l'organizzazione dei Centri di prima accoglienza: questo nel quadro di una legge nazionale (390/92) che determina le condizioni di accoglienza dei profughi dell'ex Jugoslavia e che prevede a questo scopo dei finanziamenti specifici.

Mentre il comune convoca delle assemblee cittadine e organizza incontri pubblici per discutere delle condizioni e le modalità di accoglienza, per immaginare forme di coabitazione e integrazione, in un confronto animato che coincide con la definizione collettiva della grammatica e del “vocabolario” dell’accoglienza, questa stessa accoglienza si organizza e si struttura con la formazione di mediatori culturali e di operatori socio-sanitari in grado di intervenire sul terreno e di facilitare le relazioni tra profughi e locali.

In effetti, come spiegava l’assessore alla politiche sociali dell’epoca, Beppe Caccia, la strategia di gestione dell’emergenza profughi e gli interventi successivi in materia di accoglienza è stata dall’inizio quella della continuità e della progettualità. L’obiettivo era quello dell’inserimento di queste persone nel tessuto sociale ...”33 33 Il Gazzettino, 10/8/2004. Cf. <http://www.meltingpot.org/A-Venezia-475-profughi-hanno-trovato-casa-e-lavoro.html#.WGKD3WV-r-Y>. . Attraverso percorsi di scolarizzazione dei bambini, di inserimento professionale e di sostegno all’alloggio, la quasi totalità delle persone presenti nel CPA si sono progressivamente installate sul territorio, in città o nelle zone limitrofe. Quando nel 1999 il governo italiano, che si pronunciò in favore di un intervento militare in ex Jugoslavia, dichiarerà terminata l’urgenza e taglierà i fondi, il comune di Venezia sceglierà di non rinunciare a questo progetto di accoglienza e di continuarlo a proprie spese, anche in ragione dell’arrivo di nuovi profughi provenienti dai Balcani, e questo fino alla chiusura dei CPA di Zelerino (ottobre 2001) e San Giuliano (marzo 2003).

Al contrario, l’esperienza dei CPA porta l’amministrazione a strutturare ulteriormente il dispositivo di accoglienza, a partire dall’impegno dei suoi amministratori34 34 Il sindaco filosofo Massimo Cacciari (1993-2000 et 2005-2010), il sociologo Gianfranco Bettin e numerosi operatori e funzionari. : nel 1994 il comune inaugura il Servizio immigranti e nomadi, che si occupa sia di sensibilizzare la popolazione residente che dell’accompagnamento della popolazione “immigrante”. Il servizio apre uno Sportello regionale per i rifugiati in collaborazione con il Consiglio italiano per i rifugiati (CIR), l'UNHCR e la Regione Veneto. Negli anni successivi, in parallelo ad un aumento della popolazione migrante sul territorio, legata ad un decreto di regolarizzazione (1996) e all’arrivo di nuovi profughi (kosovari e curdi in particolare), il Servizio intensifica le proprie attività di promozione e di formazione in Italia e altrove, moltiplicando in parallelo le attività sul territorio35 35 Il Servizio viene invitato alla terza conferenza europea sull'integrazione dei rifugiati a Bruxelles nel 1999, e partecipa al progetto europeo Solidarité Réfugies Europe nel 2000. . L’entrata in vigore della Convenzione di Dublino e la promulgazione della legge sull'immigrazione (1998/40) spingono il comune a riorganizzare il Servizio immigrazione e promozione dei diritti di cittadinanza, con la creazione di unità operative specifiche (2001), per i Cittadini stranieri e per i Richiedenti asilo e i rifugiati.

Con il sostegno del Fondo europeo per i rifugiati e del nuovo Piano nazionale asilo (PNA)36 36 Le PNA è il frutto di un protocollo di intesa tra il Ministero degli Interni l'UNHCR e l'ANCI (associazione nazionale dei comuni italiani) che punta ad organizzare in rete le precedenti esperienze di accoglienza decentrate: il caso di Venezia diventa un modello di riferimento nell'organizzazione di un sistema di circa 200 comuni e 63 progetti territoriali che costituiranno in seguito la base dello SPRAR, inaugurato nel 2002 Venezia inaugura nel 2001 il Progetto Fontego, che si definisce “progetto di accoglienza, integrazione e rimpatrio volontario per richiedenti asilo e rifugiati”: sul territorio aprono tre centri di accoglienza, a Venezia, Marghera e Tessera, con una capacità di alcune centinaia di posti: i richiedenti asilo sottoscrivono un contratto di accoglienza con il comune, beneficiano di un accoglienza di circa 6 mesi (che si adatta alla variazione dei tempi delle Commissioni territoriali di valutazione delle domande di asilo), durante i quali ricevono servizi (assistenza sanitaria, tessera dei trasporti, corsi di lingua, formazioni professionali) impegnandosi a rispettare un regolamento interno. Nel frattempo, lo sportello continua ad offrire sostegno e assistenza anche ai migranti che rimangono esclusi dall’accoglienza “ufficiale”, ma che trovano in città reti di appoggio più o meno formali, e una serie di servizi intorno a cui gravitare.

Al di là della parabola del progetto veneziano, chiamato Fontego dal nome dei luoghi che nella Serenissima Repubblica di Venezia erano destinati ad accogliere le comunità di stranieri (riferimento che fa da contrappeso alla genealogia del Ghetto, nato sempre a Venezia nel 1516), e che ha dato prova, in particolare fino al 2011-12 di una invidiabile capacità di aggiornamento rispetto alle problematiche e alle tematiche che si sono progressivamente imposte, è precisamente la capacità di “anticipare” messa in campo dagli attori coinvolti nei primi anni del progetto, la capacità di impostare un modello di accoglienza, prima ancora che sulla natura dell’arrivante, sulle qualità e le specificità di chi riceve.

E se storicamente Venezia è sempre stata una città aperta sul mondo - anche per espliciti interessi commerciali - e ha saputo definire un modello di appartenenza fluido e insieme complesso, è da sottolineare la capacità di attualizzare questa tradizione dalla parte dell’amministrazione dell’epoca: il sindaco-filosofo, Massimo Cacciari, discutendo in quegli anni di solidarietà37 37 CACCIARI, Massimo, MARTINI, Carlo Maria. Dialogo sulla solidarietà. , ricusando gli istinti identitari/immunitari, riusciva già a resistere alle prospettive assistenziali/emergenziali, ma anche a slanci utopici di un’ospitalità incondizionata, sottolineando come fosse essenziale che l’incontro, tra città e straniero, si articolasse sulla base degli elementi concreti della convivenza, in una prospettiva costruttiva di solidarietà reciproca, cioè di collaborazione, di condivisione di responsabilità, diritti e doveri. Non è un caso che questo progetto sia diventato un modello per il futuro sistema SPRAR, che abbiamo visto rappresentare attualmente una delle “modalità di accoglienza” locale meno sopraffatte - anche in questa fase di ripiegamento complessivo - dalla logica emergenziale e da speculazioni economiche38 38 La stessa Venezia da qualche anno a questa parte pare aver ceduto a questa tendenza. Un'amministrazione apertamente di destra ed ostile alla presenza straniera - che non sia quella dei turisti – ha progressivamente delegittimato il servizio di accoglienza, che aveva già risentito negli anni precedenti di un ridimensionamento legato anche a fattori economici interni. In questo frangente è la società civile che mantiene ed incentiva attività di solidarietà e di interazione con i nuovi arrivanti e con gli stranieri sul territorio. .

Nonostante i differenti approcci, più dialogici rispetto all’Istituzione nazionale o più critici, e ispirati a tendenze autonomiste e alla rivendicazione di una maggiore “autogestione” e autodeterminazione urbana a livello sociale, economico, ecologico, (e nonostante, come abbiamo visto, anche forme di chiusura radicale) tutte queste esperienze partono dalla constatazione che, al di là del dispositivo repressivo della frontiera, è a livello locale, urbano, laddove la presenza migrante è concreta, quotidiana, che delle forme di accoglienza vanno ripensate, adattate, immaginate per poter garantire forme di convivenza e interazione che non rappresentino dei “problemi” per chi è accolto e chi accoglie, ma invece soluzioni nuove condivise.

I nomi diversi, città-rifugio o città d'asilo, città ospitale o città santuario, raccontano sfumature diverse, legate a pratiche tradizionali o a percorsi storici e sociali specifici, ma traducono tutte l'esigenza di confrontarsi diversamente, di pensare diversamente la relazione tra città e straniero, tra città e migrante.

Va notato che, benché la maggior parte delle configurazioni delle “città-rifugio” si attivino in particolare intorno alle condizioni di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, nel nome del rispetto dei diritti umani e di principi internazionali “acquisiti”, in opposizione alla prassi discriminatorie e alle violazioni delle libertà fondamentali ecc., ma comunque in conformità con le procedure di attribuzione di uno statuto di protezione internazionale, molte altre collettività si spingono più in là, e rivendicano prassi e politiche di accoglienza nei confronti in generale degli stranieri sul proprio territorio, e nello specifico nei confronti di quelli minacciati da uno statuto precario o da una condizione di irregolarità amministrativa. Questa tensione individua inevitabilmente dei terreni di confronto politico nuovi, nella misura in cui è la condizione dell’abitare, la pratica del risiedere in un luogo, e non più una inscrizione normativa ad una comunità formale, che diventa l'elemento chiave intorno al quale si organizzano nuove pratiche di coabitazione.

Il principio della residenza, e dunque le condizioni di partecipazione e di attività all’interno della comunità, diventa progressivamente l’elemento cardine intorno al quale il “cittadino” e lo “straniero” si incontrano e possono sviluppare forme di solidarietà e di collaborazione reciproche alternative, scardinando le logiche umanitarie-assistenziali da una parte, identitarie dall'altra.

Questa immaginazione di forme di coabitazione radicalmente nuove diventa evidentemente un territorio di conflitto e di tensione, di rivendicazioni in cui emergono, o si rinnovano, le pulsioni di autonomia locale, delle città ribelli39 39 HARVEY, David. Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution. come delle piccole realtà locali che, come racconta il caso di Riace in Calabria, da vent’anni si organizzano adattando modelli innovativi di accoglienza alla loro realtà locale, a dispetto delle logiche sempre più restrittive e normalizzanti imposte a livello istituzionale. Se in Italia la città di Napoli si è recentemente fregiata della denominazione di Città Ribelle, iniziando a proporre linee politiche e sociali alternative (ad esempio sull’ambiente e sull’accoglienza), posizionandosi apertamente contro dinamiche politiche nazionali “classiche” ed opponendosi in più occasioni alla presenza sul proprio territorio di rappresentanti di partiti xenofobi, il caso più interessante da menzionare in questo frangente è senza dubbio quello di Riace.

Se la sperimentazione di un accoglienza alternativa40 40 Le sperimentazioni a Riace sono numerose e spesso decisamente innovative ed originali: la più conosciuta, ripresa da tradizioni di autonomia precendenti e riprodotta in seguito altrove, è quella della creazione di una moneta locale parallela, con cui i migranti residenti possono partecipare attivamente allo sviluppo dell'economia locale. nel paese di Riace è stata tollerata per 20 anni41 41 Cf. < http://www.unpaesedicalabria.com 8 www.jolpress.com/riace-village-italie-immigration-devenu-terre-hospitalite- , la sua convenienza sociale e politica, in un equilibrio solidale specifico tra una comunità locale e i migranti in transito o residenti (secondo ragioni specifiche legate alla storia della regione e alle dinamiche di migrazione interne in Italia), così come la sua legittimità sul piano etico sono troppo esplicitamente in antitesi oggi al disfunzionamento (corruzione, cattiva gestione, speculazione) del dispositivo di accoglienza istituzionale42 42 Cf. <http://www.jolpress.com/riace-village-italie-immigration-devenu-terre-hospitalite- pour-refugies-article-822198.html>. . Inscritto di fatto nella rete Sprar ma “interpretando” in modo autonomo e attualizzando rispetto al territorio la logica del Servizio, il comune di Riace43 43 Wim Wenders: "The real Utopia is not that the Berlin Wall came down – it is that which has been happening in some towns in Calabria, first of all in Riace". e il suo sindaco ribelle pagano oggi la loro reputazione solidale. Il procuratore di Locri ha aperto qualche mese fa un'inchiesta a carico di Mimmo Lucano, detto il curdo, per abuso di potere, concussione e frode ai danni dello stato italiano e dell'UE. Prima di comparire davanti al giudice, il sindaco ha voluto presentare pubblicamente la propria versione dei fatti, di fronte alla propria comunità e ai media44 44 Cf. <http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/10/06/riace-sindaco-dellaccoglienza-inda- gato-per-abuso-e-concussione-lui-non-ci-sono-ombre/3898323/>. : non ha ricavato nessun beneficio personale dall’utilizzo piuttosto informale e immaginativo dei fondi ricevuti per gestire l’accoglienza, ha semplicemente cercato di proporre una forma di ospitalità che prendesse in conto il contesto del proprio territorio, anche a prezzo di prendere le distanze da regole e norme.

Questa flessibilità, questa capacità di adattamento in una prospettiva comune, secondo la logica di solidarietà reciproca evocata più sopra, per la quale la presenza dei migranti non rimane limitata a schemi esclusivamente gestionali o strettamente umanitari, rappresenta l’esempio stesso della città-rifugio. Ma costituisce allo stesso tempo una linea di tensione, dal punto di vista dell’istituzione nazionale, nella misura in cui mette in evidenza le capacità di auto-organizzazione dei territori e in particolare la loro capacità di articolare forme di resistenza e di solidarietà quando il potere statale non vuole o non è in grado di mantenere posizioni di questo tipo. Di fronte alle accuse mosse a Lucano, e alla procedura giudiziaria in corso, qualche settimane fa è emerso un ulteriore rapporto della prefettura riguardante Riace, che stranamente è stato “trascurato” dai media che si erano accaniti poche settimane prima sul caso Lucano45 45 Cf. <http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-02-27/integrazione-migranti-modello-riace-funziona-dice-prefetto--175406.shtml?uuid=AEQLin7D>. : il rapporto, che contraddice il rapporto precedente che aveva portato all’inchiesta, descrive un modello atipico ma che funziona, organico ed integrato al territorio: “Si ritiene - è scritto nelle considerazioni finali - che l'esperienza di Riace sia importante per la Calabria e segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene della regione”.

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  • 2
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  • 3
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  • 4
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  • 6
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  • 8
    CACCIARI, MassimoCACCIARI, Massimo. La città. Rimini: Pazzini, 2004.. La città.
  • 9
    In contrapposizione e in tensione rispetto a prospettive universaliste e cosmopolitiche più o meno utopiche.
  • 10
    SASSEN, SaskiaSASSEN, Saskia. The Global City: New York, London, Tokyo. Princeton: Princeton University Press, 1991.. The Global City: New York, London, Tokyo; AGIER, MichelAGIER, Michel. Le Couloir des Exilés, etre étranger dans un monde commun. Vulaines sur Seine: Ed. du Croquant, 2011.. Le Couloir des Exilés, etre étranger dans un monde commun;BALIBAR, EtienneBALIBAR, Etienne. Citoyen sujet et autres essais d'anthropologie philosophique. Paris: PUF, 2011.. Citoyen sujet et autres essais d'anthropologie philosophique;TASSIN, EtienneTASSIN, Etienne. Un monde commun. Pour une cosmopolitique des conflits. Paris: Seuil, 2003.. Un monde commun. Pour une cosmopolitique des conflits.
  • 11
    ISIN, Engin F.ISIN, Engin F.Being Political: Genealogies of Citizenship. Minneapolis: University of Minnesota Press, 2002. Being Political: Genealogies of Citizenship.
  • 12
    SIMMEL, GeorgSIMMEL, Georg. Digression sur l’étranger. In GRAFMEYER, Yves; JOSEPH, Isaac. L’École de Chicago, naissance de l'écologie urbaine. Paris: Ed. Du Champ urbain, 1979 (1908), p. 53-77. . Digression sur l’étranger; ZANNINI, AndreaZANNINI, Andrea. Venezia città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec. Venezia: Marcianum Press, 2009.. Venezia città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec.
  • 13
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  • 14
    WACQUANT, LoïcWACQUANT, Loïc. Parias urbains. Ghetto, banlieues, Etat. Une sociologie comparée de la marginalité sociale. Paris: La Découverte, 2007.. Parias urbains. Ghetto, banlieues, Etat. Une sociologie comparée de la marginalité sociale.
  • 15
    Cf. <https://www.facebook.com/Verona-ai-Veronesi-753236424788179/>. 09.02.2018.
  • 16
    Cf. <http://www.veronasera.it/cronaca/80-profghi-7-persone-erbezzo-Vaccamozzi-8-novembre-2017.html>.
  • 17
    È interessante notare come la riflessione di Derrida sull'ospitalità, ricondotta strategicamente al livello dello spazio urbano e delle comunità locali, nasca all'incrocio tra una prospettiva filosofica ed individuale dell'incontro con l'altro (Levinas) e le considerazioni di politica internazionale, di ordine eminentemente pratico, sull'ospitalità incondizionale elaborate da KantBENVENISTE, Émile. Le vocabulaire des institutions indo-européennes. Paris: Minuit, 1969. in "Per la pace perpetua" (1795).
  • 18
    BENVENISTE, ÉmileBENVENISTE, Émile. Le vocabulaire des institutions indo-européennes. Paris: Minuit, 1969.. Le vocabulaire des institutions indo-européennes.
  • 19
    KOBELINSKY, CarolinaKOBELINSKY, Carolina. L'accueil des demandeurs d'asile. Une ethographie de l'attente. Paris: Le Cygne, 2010.. L'accueil des demandeurs d'asile. Une ethographie de l'attente.
  • 20
    SCHERER, RenéSCHERER, René. Zeus hospitalier. Éloge de l’hospitalité. Paris: Armand Colin, 1993.. Zeus hospitalier. Éloge de l’hospitalité; DETIENNE, MarcelDETIENNE, Marcel.Comment être autochtone. Du pur Athénien au Français raciné. Paris: Le Seuil, 2003.. Comment être autochtone. Du pur Athénien au Français raciné.
  • 21
    AGIER, MichelAGIER, Michel. Commerce et sociabilité: les négociants soudanais du quartier Zongo de Lomé (Togo). Paris: Edition de l'ORSTOM, 1983.. Commerce et sociabilité: les négociants soudanais du quartier Zongo de Lomé (Togo). Le pratiche di ospitalità, come evidenzia l'etnologo Michel Agier nei suoi seminaire all'EHESS in questi anni, si differenziano culturalmente, ma sono tutte caratterizzate da una dimensione temporale (l'ospitalità è temporanea), una dimensione spaziale (ci sono luoghi specifici, in una casa, in una collettività, destinati all'ospite) e una dimensione materiale, "economica", nel senso che la relazione si "sbilancia" anche attraverso una "presa in carico" dell'ospite da parte di colui che accoglie.
  • 22
    TAZZIOLI, MartinaTAZZIOLI, Martina. Containment through mobility: migrants’ spatial disobediences and the reshaping of control through the hotspot system.Journal of Ethnic and Migration Studies, 2017, p. 1-16. Disponibile su: <https://cronfa.swan.ac.uk/Record/cronfa37958 doi:10.1080/1369183X.2017.1401514>.
    https://cronfa.swan.ac.uk/Record/cronfa3...
    . Containment through mobility: migrants’ spatial disobediences and the reshaping of control through the hotspot system.
  • 23
    RODIER, ClaireRODIER, Claire. Xenophobie Business. À quoi servent les controles migratoires. Paris: La Découverte, 2012.. Xenophobie Business. À quoi servent les controles migratoires.
  • 24
    TAZZIOLITAZZIOLI, Martina. Containment through mobility: migrants’ spatial disobediences and the reshaping of control through the hotspot system.Journal of Ethnic and Migration Studies, 2017, p. 1-16. Disponibile su: <https://cronfa.swan.ac.uk/Record/cronfa37958 doi:10.1080/1369183X.2017.1401514>.
    https://cronfa.swan.ac.uk/Record/cronfa3...
    , op. cit.
  • 25
    Cf. <http://www.medicisenzafrontiere.it/notizie/news/fuori-campo-mappa-dell%E2%80%99accoglienza-che-esclude>.
  • 26
    "Anthropologie de l'hospitalité" è il titolo del seminario di Michel Agier tenuto nel biennio 2016-17 e 2017-18 a l'EHESS di Parigi: <https://enseignements-2017.ehess.fr/2017/ue/991/>.
  • 27
    GOTMAN, AnneGOTMAN, Anne. Le sens de l’hospitalité. Essai sur les fondements sociaux de l’accueil de l’autre. Paris: Puf, 2002.. Le sens de l’hospitalité. Essai sur les fondements sociaux de l’accueil de l’autre.
  • 28
    Cf. <http://milano.corriere.it/notizie/politica/17_maggio_18/migranti-80-sindaci-firmano-l-accordo-un-nuovo-modello-milano-dell-accoglienza-50def9b6-3b88-11e7-83da-130c74015a48.shtml>.
  • 29
    DERRIDA, JacquesDERRIDA, Jacques. Cosmopolites de tous pays encore un effort. Paris: Galilée,1997.. Cosmopolites de tous pays encore un effort; DERRIDA, JacquesDERRIDA, Jacques. De l'hospitalité(avec Anne Dufourmantelle). Paris: Calmann-Lévy, 1997.. De l'hospitalité(avec Anne Dufourmantelle); PAYOT, DanielPAYOT, Daniel. Des villes-refuge. La Tour d’Aigues: L'aube, 1992.. Des villes-refuge;LEVINAS, EmmanuelLEVINAS, Emmanuel. L'au delà du verset. Lectures et discours talmudiques. Paris: Minuit, 1982.. L'au delà du verset. Lectures et discours talmudiques.
  • 30
    San Giuliano è un quartiere periferico di Mestre, in prossimità del ponte della Libertà che connette la città di Venezia alla terrraferma. Mogliano Veneto e Zelerino sono due paesi integrati nell'area metropolitana di Venezia.
  • 31
    La popopolazione del comune di Venezia nel 1992 contava 309.982 unità (cf. <http://www.comune.venezia.it/archivio/4055>.).
  • 32
    BRUNELLO, PieroBRUNELLO, Piero (a cura di). L'urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana. Roma: Manifestolibri, 1996. (a cura di). L'urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana.
  • 33
    Il Gazzettino, 10/8/2004. Cf. <http://www.meltingpot.org/A-Venezia-475-profughi-hanno-trovato-casa-e-lavoro.html#.WGKD3WV-r-Y>.
  • 34
    Il sindaco filosofo Massimo Cacciari (1993-2000 et 2005-2010), il sociologo Gianfranco Bettin e numerosi operatori e funzionari.
  • 35
    Il Servizio viene invitato alla terza conferenza europea sull'integrazione dei rifugiati a Bruxelles nel 1999, e partecipa al progetto europeo Solidarité Réfugies Europe nel 2000.
  • 36
    Le PNA è il frutto di un protocollo di intesa tra il Ministero degli Interni l'UNHCR e l'ANCI (associazione nazionale dei comuni italiani) che punta ad organizzare in rete le precedenti esperienze di accoglienza decentrate: il caso di Venezia diventa un modello di riferimento nell'organizzazione di un sistema di circa 200 comuni e 63 progetti territoriali che costituiranno in seguito la base dello SPRAR, inaugurato nel 2002
  • 37
    CACCIARI, Massimo, MARTINI, Carlo MariaCACCIARI, Massimo; MARTINI, Carlo Maria. Dialogo sulla solidarietà. Roma: Edizioni Lavoro, 1999.. Dialogo sulla solidarietà.
  • 38
    La stessa Venezia da qualche anno a questa parte pare aver ceduto a questa tendenza. Un'amministrazione apertamente di destra ed ostile alla presenza straniera - che non sia quella dei turisti – ha progressivamente delegittimato il servizio di accoglienza, che aveva già risentito negli anni precedenti di un ridimensionamento legato anche a fattori economici interni. In questo frangente è la società civile che mantiene ed incentiva attività di solidarietà e di interazione con i nuovi arrivanti e con gli stranieri sul territorio.
  • 39
    HARVEY, DavidHARVEY, David. Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution. London: Verso, 2012.. Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution.
  • 40
    Le sperimentazioni a Riace sono numerose e spesso decisamente innovative ed originali: la più conosciuta, ripresa da tradizioni di autonomia precendenti e riprodotta in seguito altrove, è quella della creazione di una moneta locale parallela, con cui i migranti residenti possono partecipare attivamente allo sviluppo dell'economia locale.
  • 41
    Cf. < http://www.unpaesedicalabria.com 8 www.jolpress.com/riace-village-italie-immigration-devenu-terre-hospitalite-
  • 42
    Cf. <http://www.jolpress.com/riace-village-italie-immigration-devenu-terre-hospitalite- pour-refugies-article-822198.html>.
  • 43
    Wim Wenders: "The real Utopia is not that the Berlin Wall came down – it is that which has been happening in some towns in Calabria, first of all in Riace".
  • 44
    Cf. <http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/10/06/riace-sindaco-dellaccoglienza-inda- gato-per-abuso-e-concussione-lui-non-ci-sono-ombre/3898323/>.
  • 45
    Cf. <http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-02-27/integrazione-migranti-modello-riace-funziona-dice-prefetto--175406.shtml?uuid=AEQLin7D>.

Publication Dates

  • Publication in this collection
    Jan-Apr 2018

History

  • Received
    31 Jan 2018
  • Accepted
    06 Mar 2018
Centro Scalabriniano de Estudos Migratórios SRTV/N Edificio Brasília Radio Center , Conj. P - Qd. 702 - Sobrelojas 01/02, CEP 70719-900 Brasília-DF Brasil, Tel./ Fax(55 61) 3327-0669 - Brasília - DF - Brazil
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