Abstract (it)
Facendo dialogare Sayad con altrɜ autorɜ, quest’articolo propone il concetto di presentificazione intendendolo come un uso politico del tempo da parte degli Stati-nazione, funzionale all’assoggettamento delle persone. Le politiche confinarie europee, infatti, pongono le soggettività migranti in regimi di incertezza legale e precarietà temporale, utilizzando il tempo come un’arma per astrarle dalla Storia, collocandole in un presente reiterato. La presentificazione produce assenza dal campo storico, mentre le persone tentano di farsi presenza.
Questa condizione viene infatti sfidata dalle soggettività migranti, che provano a riappropriarsi del proprio tempo, attivando processi di soggettivazione, emergenti dalle pieghe dei regimi di assoggettamento. Il “provvisorio che dura” produce qualcosa laddove si fa presenza attraverso forme di attivazione politica che interrompono la ricorsività prodotta dai regimi di frontiera. Questo articolo muove quindi dalla dialettica tra campi di forza all’interno dei quali si gioca la partita del soggetto: da una parte, presentificazione e individuazione, dall’altra soggettivazione e storicizzazione.
Parole-chiave: Abdelmalek Sayad; confini temporali; presentificazione
Abstract (en)
Bringing Sayad into dialogue with other authors, this article proposes the concept of presentification as a political use of time by nation-states, functional to the subjugation of people. European border policies, in fact, force migrant subjectivities in regimes of legal uncertainty and temporal precariousness, weaponizing time in order to abstract them from History, placing them in a reiterated present. Presentification produces absence from the historical field, while people attempt to make themselves presences.
Indeed, this condition is challenged by migrant subjectivities, which try to re-appropriate their own time, activating processes of subjectivation, emerging from the meshes of regimes of subjugation. The “provisional that lasts” produces something where it makes a presence through forms of political activation that interrupt the recursiveness produced by border regimes. This article thus moves from the dialectic between fields of force within which the game of the subject is played out: on the one hand, presentification and individuation, on the other, subjectivation and historicisation.
Keywords: Abdelmalek Sayad; temporal borders; presentification
Introduzione
In questo articolo proponiamo il concetto di presentificazione1 intendendolo come un atto di forza da parte degli Stati, che utilizzano il tempo come un’arma (in inglese si parlerebbe di weaponization of time) per astrarre i soggetti dal corso della Storia, collocandoli in un presente reiterato, allungato, elasticizzato, in funzione del loro assoggettamento. La presentificazione è quindi l’atto di ridurre un soggetto esclusivamente a un tempo presente, negandone al tempo stesso un passato e ostacolandone un futuro, e quindi negando la possibilità di divenire del soggetto, condannandolo di fatto a un’assenza.
Questo articolo si inserisce in un dibattito recente all’interno degli studi sulle migrazioni, ovvero quello sui confini temporali (Andersson, 2014; Mezzadra, Neilson, 2014; Fontanari, 2017; Khosravi, 2018). Come scrive Martina Tazzioli (2018), al contenimento della possibilità di muoversi nello spazio, si intrecciano e sovrappongono temporalità del controllo: il tempo non è solo un oggetto dei meccanismi di controllo - il controllo sul tempo - ma anche un mezzo e una tecnologia per assoggettare le persone migranti - il controllo attraverso il tempo.
Proponiamo qui due campi di forza dove si gioca la partita del soggetto: da una parte, la storicizzazione e la soggettivazione; dall’altra, la presentificazione e l’individuazione2 (Sayad, 2002). Il movimento dialettico che si genera da questo incontro/scontro è il motore epistemologico del presente scritto.
In questo senso, vogliamo qui proporre uno sguardo su un’epistemologia del tempo o, meglio, delle temporalità3, come prospettiva da cui interrogare la dimensione temporale delle storie migranti.
Le nostre molteplici esperienze etnografiche in zone di confine hanno evidenziato quanto il concetto di tempo in questi luoghi sia elastico e soggettivo. Le politiche confinarie europee sempre più restrittive conducono le persone ad abitare la molteplicità di confini (geografici, fisici, giuridici, burocratici, sociali) per mesi e anni, spesso con status legali indefiniti, in un limbo di precarietà temporale che produce una presentificazione forzata. Al tempo stesso, questa condizione viene sfidata, dando luogo a processi di soggettivazione, incistati e talvolta emergenti dalle pieghe dei regimi di assoggettamento (Foucault, 2007). Il “provvisorio che dura” (Sayad, 2002) produce qualcosa laddove si fa presenza. Ascoltando ancora Sayad, dovremmo liberare lə4 “migrante” da una condizione di ospite, transitante, beneficiariə, per ripensarlə finalmente come un soggetto politico, il quale, sfidando i regimi delle migrazioni, riesce a sfidare contemporaneamente i paradigmi di cittadinanza e dello Stato nazione. Abbandonando la prospettiva del “pensiero di Stato” - un altro concetto caro a Sayad - si aprono nuovi mondi in cui la ricerca sociale può muovere i suoi passi, le sue etnografie.
Nota metodologica: prendersi il tempo per fare etnografia
Fare etnografia richiede tempo. Eppure, nel contesto contemporaneo dell’università neoliberale gli incontri con il campo di ricerca sono sempre più brevi e fuggevoli; lɜ ricercatorɜ sono tenutɜ a obblighi - in primis quello di pubblicare - che non consentono di dedicarsi a lunghi e continui periodi di permanenza sul campo (Valz Gris et al. 2022; Di Matteo, Daminelli 2023). Come scrivono Andreas Bandak e Manpreet K. Janeja (2018), la trasformazione della noia etnografica in impegno produttivo è stata messa sempre più sotto pressione in un’epoca in cui alle persone non è permesso aspettare; i discorsi produttivisti sulla velocità e l’efficienza limitano l’attenzione per i dettagli andando a minare il modo in cui si producono conoscenze e saperi critici.
Prendersi il tempo per fare etnografia, perciò, non è semplicemente una questione etica e metodologica, ma anche politica. L’etnografia combatte il ritmo frenetico delle nostre vite messe a valore. A tal proposito, ancora Bandak e Janeja parlano di “waiting as a method” (2018): l’attesa etnografica ha luogo sia nel tempo che in relazione col tempo. L’etnografia emerge nell’attesa e attraverso l’attesa: non è solo l’attesa del passare del tempo, ma come scrive David Bissel (2007) una forma di attesa “attiva e intenzionale”.
Fare etnografia significa prendersi il tempo per essere disponibili all’incontro, per mettersi in ascolto e osservare, per confrontarsi e dibattere, per condividere e cooperare, producendo sapere critico a partire dalle modalità con cui viene costruito. L’etnografia ha quindi il potenziale per essere anche una pratica di debordering dei confini del sapere accademico, tentando di sovvertire le logiche che strutturano e irreggimentano la creazione di conoscenza all’interno dell’Accademia, producendo frontiere tra coloro che hanno l’autorevolezza e l’autorità di produrla e coloro che vengono etichettatɜ, nella migliore delle ipotesi, come informatorɜ.
A partire quindi da una metodologia etnografica - che, per natura, è uno strumento per esplorare il presente mentre si fa passato, sempre tesa in quel tentativo di abbracciare la contemporaneità che, per definizione, è inafferrabile in quanto già superata nel momento in cui ci rivolgiamo ad essa - questo articolo tenta di fornire alcuni strumenti concettuali per intendere altrimenti le forze in campo nella battleground delle migrazioni contemporanee.
Il materiale etnografico contenuto in questo articolo è il frutto delle nostre ricerche di dottorato condotte fra il 2018 e il 2023 fra Genova, Ventimiglia, Atene, Lesbo e Serbia.
Tra storicizzazione e presentificazione
Dalle storie delle persone che incontriamo sui nostri campi di ricerca - le frontiere europee, esterne o interne che siano - le parole di Sayad risuonano limpide, ancora talmente attuali da portarci ad avanzare l’ipotesi che quello che bisogna ricercare sono le logiche strutturali e storiche della migrazione. Pensiamo che ricercarle nella dimensione temporale - nella sua storicità - possa pertanto portarci a rispondere a qualche quesito: in che modo il tempo e le temporalità possono essere lenti per descrivere contemporaneamente i campi di forza degli Stati e i processi di soggettivazione delle persone? Come la dialettica del “provvisorio che dura” si traduce nella materialità dei confini?
L’altro giorno Bernadette5, una donna ivoriana, richiedente asilo a Genova, mi ha detto di aver finalmente capito una lezione che il suo percorso di vita le aveva violentemente sbattuto in faccia: “Tu sais, les frontières ce sont les cicatrices de l’Histoire”. Le frontiere sono le cicatrici della Storia, quello che rimane, incistato e talvolta mal rimarginato, della Storia. (Diario di campo, Genova, maggio 2023)
Questi confini-cicatrici vengono naturalizzati dal pensiero di Stato, negando i processi storici e coloniali che ne costituiscono la genesi. Le mobilità che sfidano questi confini ci costringono però a svelarne l’arbitrarietà, ristoricizzandoli.
Riflettere sull’immigrazione significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento. […] Significa in ultima analisi “denaturalizzare” ciò che viene considerato “naturale”, e “ri-storicizzare” lo Stato, […] cioè significa ricordare le condizioni sociali e storiche della sua genesi. […] L’immigrazione - ed è questo il motivo per cui essa disturba - costringe a smascherare lo Stato, a smascherare il modo in cui lo pensiamo e in cui pensa sé stesso. (Sayad, 2002, p. 370)
Le parole di Bernadette fanno risuonare l’eco di storie coloniali e di odierne forme di colonialità (Quijano, 2000; Mignolo, 2007; Mellino, 2011), contro quello che può essere definito un processo di presentificazione del fenomeno migratorio. Un processo che colloca l’arrivo delle persone migranti in Europa in un costante presente, riproposto ogni giorno uguale a sé stesso, tramite fotografie, video e numeri di sbarchi che rappresentano il fenomeno qui e ora, impedendo di inserirlo in una prospettiva temporale più ampia e negando quindi la possibilità di coglierne la strutturalità, incasellandolo sempre nella categoria dell’emergenza. Prendendo in prestito un’espressione dello storico Ilan Pappé (2022), contestualizzando la storia (negata) della Palestina all’interno dell’ordine coloniale israeliano: si ignora il contesto storico e coloniale all’interno del quale avvengono le migrazioni, mentre si utilizzano immagini e dati spettacolarizzati come pretesto per portare avanti la narrazione della crisi, che si riflette in politiche sempre più securitarie6 . In questo senso, l’amnesia storica diventa funzionale alla macchina dello Stato. Ancora con Pappé, “la storia si fa cominciare nel momento in cui è più conveniente” che è precisamente uno dei processi attraverso cui agisce il razzismo: “l’essenza del razzismo consiste nel dimenticare le storie e le operazioni di potere che lo costituiscono, e nel biasimare le sue vittime o farne un capro espiatorio” (Al-Saji, 2013, p. 4, traduzione nostra).
Siamo di fronte a un processo che riecheggia - in maniera speculare - l’operazione condotta dagli Stati europei proprio per legittimare e portare avanti la colonizzazione dei Paesi del Sud globale: colonizzazione che veniva narrata come civilizzazione di popoli collocati fuori dalla storia, o nella preistoria, secondo una logica evoluzionista del genere umano. Possiamo dire che tutta la costruzione epistemologica dell’Occidente sia, di fatto, basata sulla postulazione dell’asincronicità fra Europa e resto del mondo (Quijano, 2000; Hesse, 2007; Mignolo, 2021). “Il fulcro del razzismo coloniale è la negazione della sincronicità. Cioè, l’idea che l’altrə appartenga a una temporalità diversa. [...] L’altrə rispetto all’io occidentale è collocatə in un’altra cornice temporale rispetto a quella a cui gli europei sentono di appartenere” (Khosravi, 2019, traduzione nostra).
La presentificazione è una pratica di fissaggio, sembra quasi suggerirci Frantz Fanon. Fissare, primariamente attraverso lo sguardo che il Bianco posa sul Nero, significa intrappolare nell’ordine coloniale delle cose.
Ma laggiù, proprio sul crinale, inciampo, e l’altro, con gesti, atteggiamenti, sguardi, mi fissa, così come si fissa un preparato, un colorante. Mi arrabbiavo, pretendevo una spiegazione… Non servì a nulla. Esplodevo […] Quel giorno, disorientato, incapace di essere al di fuori con l’altro, il Bianco, il quale, impietoso, mi imprigionava, mi portai lontano dalla mia stessa presenza, molto lontano, costituendomi come oggetto. Che cos’era per me se non uno scollamento, una lacerazione, un’emorragia che coagulava sangue nero su tutto il mio corpo? (Fanon, 2015, p. 109-112)
È ancora una volta Sayad che ci chiede di prestare attenzione a una questione: il pensiero di Stato ci porta, con i suoi meccanismi di strutturazione e categorizzazione della realtà, a produrre delle categorie come immigratə o emigrante, producendo dietro a queste terminologie degli immaginari che si fanno realtà. Negare il tempo storico dell’altrə è una mossa da sempre usata nella storia, dai tempi delle piantagioni di schiavɜ ai periodi coloniali. L’amnesia storica è un’arma in mano al pensiero di Stato, rubare il passato mentre si riduce a un presente senza futuro.
L’alterità dell’immigratə oggi, così come dellə colonizzatə ieri, si costruisce sull’appartenenza a un’altra storia (Sayad, 2002) o a una storia che arriva sempre troppo tardi (Fanon, 2015):
[P]er il Nero non si tratta più di essere nero, ma di essere di fronte al Bianco. […] La loro metafisica [dei neri], o meno pretenziosamente i loro costumi e le loro istanze, erano aboliti perché si trovavano in contraddizione con una civiltà che ignoravano e che si imponeva loro. […] [M]i è toccato affrontare lo sguardo bianco. Una pesantezza inconsueta mi oppresse. […] Il negro è una bestia, il negro è malvagio, il negro è cattivo, il negro è brutto […]. Il mondo bianco, l’unico onesto, mi rifiutava ogni tipo di partecipazione. […] Sono fissato. […] Sento, vedo in questi sguardi bianchi che non è un nuovo uomo che sta facendo il suo ingresso, ma un nuovo tipo di uomo, un nuovo genere. Un negro, insomma! […] I negri sono dei selvaggi, dei bruti, degli analfabeti. […] All’inizio della storia costruitami dagli altri, era stato posto bene in evidenza lo zoccolo dell’antropofagia, perché me ne ricordassi. Si descrivevano sui miei cromosomi alcuni geni più o meno spessi che rappresentavano il cannibalismo. […] Tutto è previsto, trovato, provato, sfruttato. […] [T]roppo tardi, decisamente troppo tardi. Ci sarà sempre un mondo - bianco - tra voi e noi… […] Si tratta, in altri termini, di umanità al ribasso. (ibidem, p. 109-123)
Da qui l’immaginario dellɜ migranti come mai del tutto presenti qua e mai del tutto assenti là, immagine che si tramuta in un atto politico, nel momento in cui questa precarietà ontologica applicata a una categoria di persone, equivale a ridurne drasticamente il potenziale politico, collettivo e storico che è imprescindibile dall’essere presenza ma non presentificatɜ.
Ernesto de Martino (1977) ci suggerisce alcune indicazioni utili in tal senso: allorché la presenza non è radicata nell’ordine culturale delle cose, la crisi della stessa è una minaccia costante e, di conseguenza, la presenza dev’essere costantemente consolidata e conquistata. La sua crisi si compie quando il soggetto non agisce ma si sente agito-da. La dialettica che qui proponiamo è quindi la tensione che si instaura tra l’essere presenza e l’essere presentificatɜ, tra l’agire e l’essere agitɜ, tra il condursi altrimenti e il farsi condurre.
C’è forse un’equazione da stabilire tra presentificazione e individuazione? Se l’individuazione è quel processo che appare a un certo punto conscio all’immigratə, che riscopre il proprio corpo come pura forza lavoro e come oggetto di un ordine individuale della realtà, la presentificazione ne completa il processo, rendendolə pura materia corporea in un presente fuori dalla Storia: corpo medicalizzato, sfruttato, allontanato, picchiato, rinchiuso. Tempo capitalizzato, piatto, vuoto, ripetitivo, arrovellato su sé stesso. È altrettanto vero che questo non è un atteggiamento dell’immigratə, ma un atto di violenza dello Stato. “Il povero non è restio a pianificare il domani per via di un “orientamento al presente”, ma perché già oggi fa fatica a mantenersi a galla” (Belmonte, 2021, p. 115).
D’altra parte, le soggettività rivendicano una presenza storica, un riscatto dalla condizione temporale subita: attivano così processi che qui definiamo al contempo di storicizzazione - posizionandosi nella Storia collettiva - e soggettivazione - come processi di costruzione della soggettività.
La questione della presentificazione ci chiede di rivolgere lo sguardo ai subaltern studies quale discorso che pone la questione se lə subalternə possa effettivamente parlare (Spivak, 1988)7 , raccontare la propria storia, e costituirsi quindi come soggetto storico. La liberazione dellə subalternə richiede l’inserirsi in un discorso storico, che non sia imposto, ma riappropriato.
Tempo sottratto, tempo spossessato
In questa prima parte, intendiamo focalizzarci sui regimi di assoggettamento temporale che fissano (o forzano a stare in movimento) le persone lungo le frontiere d’Europa. Attraverso quali meccanismi il tempo delle persone viene loro sottratto e in che modo questo meccanismo risulta funzionale alla macchina della governamentalità delle migrazioni?
Il regolamento di Dublino8 appare come una vera e propria macchina del tempo, incidendo profondamente nelle traiettorie migratorie delle persone: agisce, spesso, nel rallentare o intralciare l’arrivo nel Paese desiderato. Leggiamo questo stralcio di intervista, realizzata con un ragazzo sudanese, Fouad che, all’epoca dell’intervista, era richiedente asilo in Italia:
Ho lasciato il Sudan, abitavo vicino a Khartoum, ho attraversato il Ciad e sono arrivato in Libia. Ho lavorato per alcuni mesi in Libia per raccogliere i soldi per partire. Sono arrivato in Italia nel 2015, sbarcando a Lampedusa. Ho attraversato l’Italia prima di arrivare a Ventimiglia: sapevo di voler andare in un altro Paese. Ma c’era un problema, perché avevo già lasciato le mie impronte digitali in Italia, quindi non potevo andare in un altro Paese (...) così sono rimasto al campo dei Balzi Rossi per una, due, tre settimane, infine un mese. Poi ho visto cosa stavano facendo i No Borders per aiutare i migranti. Così ho deciso di chiedere asilo qui in Italia e sono rimasto qui (...) Sono rimasto nel campo dei Balzi Rossi per 5 mesi. Sono stato di nuovo a Ventimiglia, ma vedevo che le persone solidali se ne andavano, avevano i fogli di via. Dopo qualche mese, sono andato in Francia, sapevo come attraversare il confine. Sono rimasto a Grenoble per 8 mesi perché lì avevo degli amici sudanesi. Ero felice in Francia, ma mi avevano messo nella “procedura Dublino” e, per questo, un giorno la polizia mi ha arrestato. Mi hanno messo su un aereo e sono arrivato in Sardegna. Qui l’Italia ha detto che non dovevo restare in Italia, che dovevo tornare in Francia. Così mi hanno messo di nuovo su un aereo e mi hanno riportato a Parigi. Solo che neanche i francesi mi volevano. Senza mai scendere dall’aereo, alla fine sono arrivato a Roma. Qui la polizia mi ha dato un biglietto del treno e mi ha detto di andare a Torino per entrare in un centro. Lì non conoscevo nessuno. Così sono tornato a Ventimiglia. (Intervista a Fouad, Ventimiglia, marzo 2018)
L’impronta digitale diventa l’elemento di cattura delle persone, che vengono prese dalla macchina umanitaria europea. I loro progetti vengono deviati e ostacolati da un meccanismo disfunzionale di assegnazione delle responsabilità, a livello europeo ed extra-europeo, delle richieste di protezione internazionale che vengono registrate. La frontiera si cuce sulla pelle delle persone, si incista nelle pieghe dei corpi. Così, anche evitare di lasciare le proprie impronte digitali - fino ad arrivare alla scelta drammatica di bruciarle per far scomparire le tracce biometriche - diventa un elemento del gioco del tempo del percorso migratorio.
È negli hotspot - nel Sud Italia, così come sulle isole greche - che alle persone migranti viene impresso addosso il confine (Rastello, 2014). Attraverso la registrazione dei loro dati biometrici, infatti, le persone vengono limitate nella loro libertà di movimento attraverso i confini interni europei, rendendoli tracciabili e passibili di deportazione (De Genova, 2019) per tutto il tempo della loro permanenza in EUropa.
Nel caso delle isole greche, però, gli hotspot sono anche luoghi di confinamento prolungato, dove le persone sono obbligate a trascorrere l’intera attesa durante la procedura d’asilo - che spesso dura anni. La permanenza all’interno di questi campi ha quindi una doppia funzione che si estende nel tempo: il controllo del e nel presente attraverso sistemi di sorveglianza e pratiche disciplinanti quotidiane; il controllo del e nel futuro attraverso la raccolta dei loro dati biometrici.
Quello che si produce all’interno di questi luoghi corrisponde quindi ad un atto di presentificazione delle soggettività recluse, dove le loro Storie vengono ridotte a narrazioni standardizzate (funzionali alla macchina della richiesta di protezione internazionale) e i loro futuri destinati a un ritorno ad un punto zero (tramite le deportazioni forzate) o a regimi di illegalità e clandestinità che ostacolano il riscatto di un tempo futuro. Il tempo trascorso all’interno di campi e hotspot, come quello di Lesbo, si riduce a una quotidianità disciplinante che si ripete ogni giorno uguale a sé stessa, producendo corpi assoggettati.
Dovevamo stare in fila tutto il giorno. Al mattino, stavamo in fila dalle 6 del mattino per tre ore, solo per avere una bottiglia d’acqua e un croissant. Poi per pranzo, lo stesso, dovevamo stare di nuovo in fila. Non distribuivano la cena, solo qualche volta uova sode, ma spesso erano andate a male e non potevamo mangiarle. Nelle file si litigava sempre. (Intervista a Rashid, Mitilene, 24 aprile 2022)
Ci abituiamo a tutto: ci abituiamo ad aspettare, ci abituiamo a soffrire, ci abituiamo a dormire in una tenda sotto la pioggia, ci abituiamo ad avere freddo, ci abituiamo ad essere malati, ci abituiamo ad essere rigettati, ci abituiamo a tutte le stronzate che ci propinano, ci abituiamo ad ogni cazzo di situazione in cui ci mettono... Questo è un sistema per cambiare le persone! E questa è anche una sorta di lezione per tutti quei rifugiati dietro il confine: “Vedete cosa stiamo facendo con la vostra gente? Ecco, questo è quello che troverete se volete venire in Europa!”. (Intervista a Zaman, Mitilene, 20 maggio 2022)
L’intreccio fra Regolamento di Dublino e controlli di frontiera produce respingimenti, espulsioni, detenzioni. Si tratta di tenere le persone in costante movimento - alternandolo con attese e contenimenti forzati (nei campi sulle isole greche, nelle accoglienze italiane, così come nei CPR) - e quindi in un costante presente.
Corpi anestetizzati per restare vivi
Nei territori di frontiera, che siano borderland come Ventimiglia o il confine serbo-ungherese, i campi umanitari di Lesvos o le strutture di accoglienza in un qualsiasi Paese europeo, l’abuso di sostanze stupefacenti, alcoliche e di farmaci è un fenomeno sempre più presente. Lo stato di alterazione dei corpi e delle menti che queste sostanze producono entra in gioco nelle politiche dei corpi in frontiera: sostanze che attivano, che producono un movimento, che riempiono l’attesa e che accompagnano i momenti di accelerazione. Se guardassimo a questi corpi al di fuori di una visione medicalizzante e patologizzante, potremmo forse scorgere una tensione a reagire a una condizione temporale opprimente e dolorosa. Rivotril, Lyrica sono parole che sono entrate nei linguaggi di frontiera.
Se il pensiero di Stato produce dunque corpi patologici, da medicalizzare, quello che cercano le persone è di mantenere vivi i propri corpi - ad esempio assumendo energy drink. Non c’è da stupirsi se la partita si gioca sul piano della biopolitica: è proprio sul campo dei corpi che si gioca la battleground dei confini.
Abbiamo incontrato Abdulrahim, ci eravamo conosciuti a Lesbo, dove era in attesa della sua domanda d’asilo. È riuscito ad andarsene dopo tre risposte negative, salendo con un documento falso su un traghetto. Ripartirà fra pochi giorni, vuole passare dall’Albania per raggiungere la Serbia. Un suo amico è già in viaggio e ha condiviso con lui le coordinate del luogo dove dovrà raggiungerlo. […] Ci ha descritto il kit necessario ad affrontare il viaggio: energy drink, datteri, power bank, carote (che dice contengono vitamine che fanno bene agli occhi), scarpe comode, pochi vestiti, ma caldi. (Diario di campo, Atene, novembre 2022)
Lattine vuote di energy drink in uno squat al confine serbo-ungherese (foto dellɜ autorɜ)
La maggior parte di loro [...] usa questa pillola chiamata Lyrica... La prendono e non capiscono più niente... [...] Qualcuno la usa come la cocaina, con il naso... È un medicinale per l’epilessia... Se si hanno soldi, ci sono anche altri due o tre medicinali che si possono trovare facilmente all’interno del campo... Se hai soldi, puoi trovare tutto facilmente... Cocaina, hashish, e... Eroina, crystal, tutto è disponibile, anche il vino... Da fuori dovrebbe essere impossibile portare qualcosa dentro [...]. Ho passato molto tempo nel campo... Quando sei lì dentro ti senti diverso, anche il tuo corpo si sente diverso... Ognuno è occupato a pensare a sé stesso [...]. Nella mia stanza all’interno del campo, c’erano queste due persone: una fumava sempre e beveva vino; l’altra usava di tutto, diversi tipi di farmaci, giorno e notte e non usciva mai, era uno zombie. La gente usa questo tipo di droghe per rilassarsi e forse per sentire di poter sfuggire al campo e alla sua vita dolorosa... (Intervista ad Ahmed, Mitilene, 11 maggio 2022)
Tempo liberato
Riferendosi alle traiettorie migratorie delle donne nigeriane in Italia, Simona Taliani cita Kaplan (2007, p. 363) quando
propone di pensare le tante storie perdute e le altrettante storie di perdita dentro una “temporalità collettiva forclusa” di separazione, dolore, spavento e lutto. Quando sostiene che i “soggetti razzializzati” si rivolgono sempre al loro passato - non hanno cioè alcuna possibilità di dimenticarlo né di sfuggirvi - è per sostenere un uso politico della melanconia, come quel sentimento che si rifiuta di considerare risolto quanto accaduto. Essa è ciò che “trasforma il dolore del lutto nell’articolazione di lamentele che travalicano i continenti e scavalcano il tempo”. (Taliani, 2019, p. 162, il corsivo è nostro)
In questa seconda parte dell’articolo, vorremmo rivolgere l’attenzione proprio a quell’uso politico del tempo, a quel gesto di rifiuto capace di “scavalcare il tempo”; in sintesi, vorremmo rivolgere lo sguardo a quei processi che emergono dallo scontro tra soggettività e potere temporale, a partire dalle nostre esperienze di ricerca. Ventimiglia, Lesbo, Atene, confine serbo-ungherese: in ognuno di questi luoghi, il concetto di presentificazione appare in tutta la sua concretezza; nel ritardo imposto dai controlli di frontiera, nelle attese capitalizzate, nelle interruzioni inattese. In tutti questi momenti di arresto, che più che immobilismo creano una temporalità elastica, le contro-reazioni delle persone prendono forma nelle pieghe del tempo sottratto. In quegli spazi di possibilità, le persone coltivano passioni, si organizzano in collettivi politici, cercano strategie collettive e individuali. L’attivismo diventa una pratica di debordering temporale.
In tutti i campi da noi osservati, abbiamo incontrato persone che, bloccate su un’isola greca oppure al confine italo-francese o in attesa di uno status giuridico ai margini delle grandi metropoli, trasformano il loro vissuto in attivismo politico. Attraverso tre immagini etnografiche e le voci di donne alle prese coi confini temporali imposti dal regime di frontiera europeo, intendiamo mostrare come le soggettività, da una parte, riempiano il tempo, conferendo un senso al suo scorrere, mentre dall’altra, contribuiscono a farne un uso politico, eccedendo la dimensione soggettiva e contestuale, trasformandola in una collettiva e storica (storicizzandola).
Nahid. Prendersi il tempo di lottare
Facevo parte di WISH (Women in Solidarity House), un collettivo auto-organizzato. Cercavamo di creare un ambiente sicuro in cui le donne potessero parlare di ciò che accade nel campo e di ciò che succede alle frontiere. Abbiamo organizzato alcune proteste. [...] Era l’unico contesto in cui potevo parlare di tutto. Di tutte quelle cose che per me erano negative, ma che all’interno del campo erano normali. Ad esempio, all’interno del campo ho avuto degli scontri con la polizia o con le autorità, e persino i miei genitori mi dicevano “non fare così, sai che sei nel loro Paese, non hai il diritto di dire certe cose”. Ma in WISH la gente diceva “è un tuo diritto! Se succede qualcosa di sbagliato hai il diritto di dirlo!”. WISH è stata la cosa migliore che mi sia capitata a Lesbo, senza WISH non avrei potuto immaginare di vivere nel campo. Credo di aver potuto tollerare la vita nel campo a Lesbo solo grazie a WISH. Senza sarei solo stata depressa! (Intervista online a Nahid, 20 aprile 2023)
Nelle parole di Nahid emerge chiaro come l’attivismo sia un modo di contro-condurre le proprie temporalità dentro e contro i tempi imposti dal regime di frontiera. In un tempo e in un luogo di marginalità, dentro una routine disciplinante fatta di code e attese su cui non si ha il controllo, attivarsi politicamente significa non accettare che la (non) vita del campo diventi il presente a cui si è destinatɜ.
Nahid ha ben chiaro che quello trascorso dentro al campo sia un tempo di assoggettamento.
Vogliono dimostrare che non hai alcun diritto e che non puoi lamentarti di niente; che non hai il diritto di ottenere altro e che questa vita è già un dono che ti stanno facendo...! Il problema è che la gente ci crede e dice: “Ok, questa è la nostra vita, non possiamo cambiarla. Siamo venute da altri Paesi, abbiamo violato il confine e quindi questa è il nostro destino...”.
Nonostante la fatica del quotidiano, il tempo trascorso assieme alle compagne del collettivo trasforma l’attesa un tempo di soggettivazione politica e di rivendicazione. Come scrivono Richards & Lundahl, l’aspettare assieme (2021), utilizzare il tempo collettivamente, è un modo di resistere al regime temporale del confine. Ancora con le parole di Nahid: “Volevamo dimostrare di non essere persone strane o che non hanno alcun diritto. Con WISH, cerchiamo di dimostrare che siamo uguali agli altri, che abbiamo gli stessi diritti degli altri, e se non ce li danno dobbiamo prenderceli!”
Cecile. Guadagnare tempo
La storia di Cecile si articola all’interno delle pratiche di confinamento e messa in attesa delle istituzioni greche nei confronti delle persone richiedenti asilo. Sia sulle isole, che sulla terraferma greca, migliaia di persone vivono in campi di tende e container in attesa dell’esito della loro richiesta di protezione internazionale. Se fino al 2022 esisteva un progetto di housing urbano denominato ESTIA, destinato a persone richiedenti asilo ritenute portatrici di determinate fragilità (nel caso di Cecile l’essere madre single con tre figli), dal 31 dicembre di quell’anno il governo Mitsotakis ha deciso la chiusura del progetto e il trasferimento di tutte le persone beneficiarie all’interno dei campi, collocati solitamente al di fuori dello spazio urbano e interessati da crescenti livelli di militarizzazione e controllo sulle persone.
Dal 2019 sono qui in Grecia. Sono stata un anno sull’isola di Leros e poi per il resto del tempo ho vissuto qui ad Atene. [...] Sono stata nel campo lì per un anno prima di venire qui in città. [...] Quando sono arrivata a Leros, per fare la prima intervista, ho aspettato sette mesi. La risposta l’ho ricevuta dopo otto mesi ed era negativa. Così dopo un mese ho fatto ricorso, e lì è stato un inferno, ho dovuto aspettare un anno per la risposta! Mi hanno risposto negativamente, era il 2021. Così poi ho chiesto di fare una nuova domanda e mi hanno dato appuntamento dopo nove mesi per cominciare la nuova pratica. Avrò la nuova intervista a dicembre 2023. [...] Da quando sono arrivata ad Atene ho vissuto nella casa del progetto ESTIA. [...] Sono stanca, non ne posso più, aspetto da molto tempo e poi la risposta è sempre stata… negativa, negativa… Non ne posso più, vorrei partire. Io penso che la Grecia non conosca bene la storia degli altri paesi… è come se prendessero alla leggera quello che succede altrove. Eppure, ci sono delle cose che succedono, delle cose terribili, ci sono guerre, ci sono violenze, molte cose che succedono nel nostro paese e la Grecia non ne tiene conto. Non conoscono la storia del nostro paese… (Intervista a Cecile, Atene, 24 febbraio 2023)
Di fronte alla decisione del governo, Cecile ha deciso di non lasciare la sua casa, rifiutare il trasferimento nel campo di Ritsona, a oltre 70 chilometri da Atene, in modo da non perdere le relazioni umane costruite nel quartiere di Patissia e dare la possibilità ai suoi figli di continuare a frequentare la scuola pubblica.
Sono stato nell’appartamento dove vivono Cecile e i suoi tre figli. È un alloggio del progetto ESTIA, gestito dalla ONG Nostos. Il progetto è stato chiuso definitivamente dal governo greco il 31 dicembre, ma Cecile è stata avvertita della chiusura solo attraverso comunicazioni orali degli operatori, senza ricevere alcun documento scritto. Mi ha raccontato che gli operatori di Nostos telefonano quotidianamente per fare pressione affinché se ne vadano, minacciando che in caso contrario verrà segnalata al Ministero dell’Immigrazione e convocata in tribunale. [...] I bambini hanno fra i 2 e i 7 anni circa, i due più grandi frequentano la scuola del quartiere, proprio davanti al palazzo dove vivono. [...] La casa è abbastanza fatiscente ed è composta da due stanze con letti a castello, matrimoniale sotto e singolo sopra, una cucina, un bagno, un piccolo salotto. Non hanno soldi e non hanno alternative: avendo ricevuto il secondo diniego e non avendo ancora cominciato la nuova procedura d’asilo, Cecile non riceve denaro dal governo greco da circa un anno. Sembra depressa, la costante pressione degli operatori la mette in una condizione di forte stress. Nel palazzo vivevano anche altre persone richiedenti asilo, ma a partire da novembre hanno ricevuto fogli con i quali le si invitava ad accettare il trasferimento nei campi, hanno firmato e sono state spostate. (Diario di campo, Atene, 8 gennaio 2022)
Nonostante la sua posizione di svantaggio e ricattabilità di fronte alle istituzioni greche, Cecile con l’aiuto del collettivo Solidarity with Migrants e di una rete solidale costituitasi nel quartiere è riuscita a trovato il coraggio e le energie per rifiutare il trasferimento.
Ieri gli operatori di Nostos sono tornati a fare visita a Cecile, le hanno “proposto” di andare a vivere a Ritsona. [...] Lei non ha alcuna intenzione di andare a vivere nel campo, conosce quali sono le condizioni di vita all’interno e non vuole che i suoi figli smettano di frequentare la scuola di Patissia. Tutti i documenti che le hanno detto di firmare erano in greco, non era disponibile nessuna traduzione, se non quella fatta oralmente dalla mediatrice della ONG. Cecile si è rifiutata di firmare e gli operatori le hanno detto che il giorno successivo sarebbero venuti a ritirare le chiavi di casa. [...] Stamattina così è stato organizzato un presidio di solidarietà davanti al portone del palazzo di Cecile; hanno partecipato una trentina di persone, fra cui anche i maestri e le maestre della scuola dei suoi figli, che nelle ore libere dal lavoro si sono alternate a portare sostegno. [...] Alla fine gli operatori di Nostos hanno desistito e Cecile è ancora a casa. [...] Cecile, con l’aiuto dei solidali e il sostegno legale, sta guadagnando tempo, posticipando la data del suo sfratto ed evitando il trasferimento coatto a Ritsona. (Diario di campo, Atene, 24 gennaio 2023)
Nelle settimane successive, una collettività si mobilita assieme a Cecile e i suoi bambini: gli insegnanti organizzano una colletta a scuola, il collettivo Solidarity with Migrants attiva un crowdfunding per raccogliere ulteriore denaro e nel frattempo si cercano modi per far sì che la famiglia non debba lasciare la sua casa.
Nostos oggi è tornata a presentarsi a casa di Cecile: le hanno consegnato una lettera dal Ministero in cui viene comunicata la sospensione della sua cash card a causa del suo rifiuto di trasferirsi nel campo. Cecile è riuscita a cominciare la sua nuova richiesta d’asilo, ma la legge è cambiata e solo le persone residenti nei campi hanno ora diritto al sostegno economico delle autorità greche. Però, la notizia positiva è che l’avvocata che segue volontariamente il caso di Cecile ha parlato col proprietario della casa di Patissia, che si è detto disponibile a farle un contratto d’affitto regolare, sostituendo quello precedente intestato alla ONG. Nel frattempo, un’attivista di Solidarity with Migrants ha trovato un’organizzazione spagnola che è disponibile a contribuire alle spese della casa per sei mesi e fra tre giorni attivisti e insegnanti hanno organizzato un’iniziativa in piazza in piazza a sostegno di Cecile e per parlare in generale del problema abitativo nel quartiere. (Diario di campo, Atene 23 febbraio 2023)
La storia di Cecile e dei suoi tre figli è un esempio di come l’incontro con forme di solidarietà dal basso organizzate da collettivi di attivistɜ possano conferire al tempo un valore differente e talvolta antagonista a quello imposto dal regime di frontiera.
Se, come scrive Shahram Khosravi (2018), il ritardo è un dispositivo che conferisce minor valore al tempo delle persone razzializzate in Europa, al contrario, nel caso di Cecile, ritardare il momento dello sgombero del suo appartamento si è dimostrata una pratica collettiva per guadagnare tempo e trovare soluzioni al suo bisogno abitativo, garantendo al tempo stesso i bisogni relazionali e sociali suoi e dei suoi bambini.
Bernadette. Investire il tempo
Bernadette, che abbiamo già incontrato nel corso di queste pagine, è partita dalla Costa d’Avorio in seguito all’uccisione del marito. Dopo anni di percorsi turbolenti e 11 prigionie in Libia, arriva nel Sud della Tunisia. Anche qui la realtà si rivela brutale: soprattutto per le donne migranti, il contesto tunisino appare l’ennesimo girone infernale, in particolare dopo che il presidente tunisino Saied pronuncia un discorso profondamente razzista, che riceve ampia diffusione a livello mediatico9 . Come conseguenza, dilaga un clima di odio razziale nei confronti delle soggettività migranti nere: le persone vengono cacciate dai luoghi di lavoro e dalle proprie abitazioni, le cure mediche negate, anche per donne incinte e gravemente malate. È proprio in questo scenario che alcune donne, tra cui Bernadette, danno vita a FreeFemmes19: un progetto di sartoria sociale e di produzione artigianale, volto a dare forma a pratiche di solidarietà attiva e di mutuo supporto tra donne migranti che vivono tra Medenine e Zarzis, per la maggior parte in attesa di proseguire il viaggio verso l’Europa. Bernadette, accolta da aprile 2023 in un CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) a Genova, racconta:
La vita in Tunisia è molto difficile per noi, donne e migranti in particolare. Lì essere donna è un handicap. Non ci sono case dove stare, trovare lavoro è molto difficile. Una donna incinta non può andare a partorire in ospedale; una donna malata non può andare a farsi curare in ospedale… È quello che è successo a una nostra sorella, malata di cancro al fegato. Dopo il discorso di Saied l’anno scorso, le cose sono peggiorate ancora. Ma è stato proprio quel discorso e quello che ha provocato che mi hanno fatto dire “basta, così non si può andare avanti”: da quel momento, abbiamo iniziato ad organizzarci per cambiare le cose. Abbiamo fatto azioni negli ospedali, sotto la sede dell’OIM e dell’UNHCR, e piano piano, fino a quando sono partita per l’Italia, le cose hanno iniziato a cambiare, ad andare meglio. (Intervista a Bernadette, Genova, gennaio 2024)
L’attivazione politica interrompe la ricorsività e la circolarità prodotte dai regimi di frontiera. Essa è la risposta allo stillicidio di un presente reiterato, nel tentativo collettivo di inserirsi, come soggetti politici, all’interno della Storia, provando a innescare futuri diversi possibili, seppur all’interno di relazioni di potere diseguali. Queste voci ci parlano di pratiche di riscatto che prendono forma proprio in quel “non essere pienamente né di là né di qua”, tentando di farsi presenza e resistendo ai regimi di presentificazione che abbiamo fino a qui provato a descrivere.
Conclusioni. Verso una nuova coscienza temporale
Diversamente dai vissuti dei popoli colonizzati, Sayad parla di una nuova coscienza temporale (2002, p. 127), di cui attribuisce la genealogia all’esperienza che il lavoro salariato struttura nell’immaginario dell’immigrato.
Questa presa di coscienza richiede di considerare la migrazione come una presenza storica, che si inserisce nei reali processi della Storia, gli stessi dai quali gli Stati tentano di negarla: “Emigrare costituisce oggettivamente (cioè all’insaputa di tutte le parti in causa e indipendentemente dalla loro volontà) un atto che senza dubbio è fondamentalmente politico, anche se il mascherarlo e il negarlo appartengono alla natura stessa del fenomeno migratorio” (Sayad 2002, p. 123).
In conclusione, intrecciando esperienze di campo lungo i confini europei e bibliografie indispensabili nel campo delle scienze sociali (e non solo), questo articolo ha tentato di proseguire il discorso avviato da Abdelmalek Sayad sulla grande colpa dell’immigratə: quella, ossia, di rappresentare il limite stesso dello Stato-nazionale, colpevole di svelare con la sua presenza la sua verità fondamentale, ovvero il bisogno di naturalizzare processi che sono in realtà storici. Lo scandalo dell’immigrazione costringe a “smascherare lo stato, a mascherare il modo in cui lo pensiamo e in cui pensa sé stesso” (ibidem, p. 370).
Abbiamo provato a svelare questo scandalo, partendo dall’epistemologia della temporalità che ci ha permesso di orientarci nella riflessione. La presentificazione (che non è da confondere, ed è anzi il contrario, con il farsi presenza) è uno strumento fondamentale di esclusione politica: costruire l’immigrazione come provvisoria, incompleta, incerta, transitoria, eternamente espellibile o deportabile diventa uno strumento prezioso per lo Stato per mettere a tacere l’immigratə come possibile attorə politico, che detiene e rivendica diritti di cittadinanza. L’ordine coloniale, razziale e capitalista si alimenta e si riproduce sul tempo (sottratto) delle persone. Queste, a loro volta, mettono in moto meccanismi di resistenza volti a riappropriarsi del proprio tempo e a rivendicare una posizione storica. La dialettica tra questi processi crea vita sociale11 che, nel suo dispiegarsi, scrive la Storia.
Bibliografia
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Alcune letture assegnano a questo stesso concetto un significato differente: in psicanalisi la presentificazione è il far rivivere nel presente un evento traumatico del passato in funzione della sua gestione terapeutica. Ernesto De Martino parla invece di presentificazione riferendosi all’utilizzo soggettivo, nel presente, di tecniche e competenze sviluppate storicamente dai gruppi umani; in sintesi, dell’utilizzo individuale delle competenze culturali per manifestare la propria “presenza” nel mondo (vedi De Martino, 1977 e Pasquinelli, 1984).
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2
“Nell’immigrazione, l’emigrato fa un’altra esperienza del proprio corpo. Lo scopre diverso da quello degli altri e allo stesso tempo diverso da quella rappresentazione che se ne era fatta fino a quel momento e che gli veniva rimandata dal gruppo con cui si identificava. L’emigrato viene immerso in un universo economico e sociale in cui la virtù cardinale è l’individualismo generalizzato. [...] Dunque, il lavoratore immigrato [...] scopre innanzitutto l’individuazione del proprio corpo come organo o utensile di lavoro, come sede delle funzioni biologiche e come “corpo” socialmente ed esteticamente definito in termini di corpo estraneo” (Sayad, 2002, p. 271).
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3
Sayad poneva l’attenzione sul guardare ai processi storici e sociali; la “doppia assenza” è contemporaneamente un tempo e uno spazio elastici, e la condizione dell’e/immigrato si significa precisamente nell’oscillare tra l’uno e l’altro stato (e Stato): “immigrazione qui ed emigrazione là sono le due facce indissociabili di una stessa realtà, non possono essere spiegate l’una senza l’altra” (Sayad, 2002, p. 9). Cogliendo l’invito del sociologo algerino e guardando ai processi più che agli oggetti sociali ci porta a preferire il concetto di temporalità a quello di tempo, convintɜ del fatto che la dimensione temporale porta con sé stati e processi, stasi e movimenti. Ogni momento è sempre collocato all’interno di una sequenza di momenti, una temporalità appunto, in cui ciascun istante è in relazione di interdipendenza con quello precedente e quello successivo. Se parlare di tempo significa, ai nostri occhi, fotografare un momento (storico o biografico), cristallizzandolo in uno spazio-tempo, in un qui e ora, agendo proprio quell’atto di presentificazione di cui si serve il pensiero di Stato, saper invece collocare questo istante in una Storia che al tempo stesso lo precede e lo supera, assume il valore di una contro-condotta.
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In questo articolo viene utilizzato l’italiano inclusivo, le cui regole sono state proposte in un articolo del 2015 da Luca Boschetto e poi successivamente codificate sul sito https://italianoinclusivo.it/scrittura/ (ultima consultazione: 20 febbraio 2024). Nel sistema fonetico il carattere “ə” (schwa) identifica una vocale intermedia, il cui suono si pone a metà strada fra le vocali esistenti. Il suono della ǝ è ad esempio, la prima vocale della parola inglese “again”, oppure la prima vocale della parola francese “petit”. Per il plurale si utilizza “ɜ” (schwa lunga), che ha la stessa pronuncia, solo più aperta.
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Tutti i nomi delle persone citate nell’articolo sono stati modificati per preservare la loro privacy.
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L’espressione “eliminare il contesto e creare pretesti” è stata utilizzata dallo storico Ilan Pappé a proposito della narrazione israeliana del conflitto in Palestina durante la conferenza svoltasi a Genova il 25 novembre 2023 in occasione della presentazione del suo libro “Dieci Miti su Israele” (2022).
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7
Alla sua stessa domanda “can the subaltern speak?”, Spivak (1988) rispondeva negativamente: c’è sempre qualcuno che parla per.
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Il Regolamento di Dublino stabilisce che la domanda di protezione internazionale debba essere presentata ed esaminata in un solo Stato membro dell’Unione Europea e, in concreto, nel primo Paese in cui lə richiedente ha fatto ingresso. In virtù di esso, le persone sono soggette a un regime di deportabilità (De Genova, 2002) verso lo Stato di primo arrivo.
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9
Dal sito di Amnesty International leggiamo che il 21 febbraio 2023, “durante una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, il presidente Said aveva fatto commenti d’odio e discriminatori, favorendo così la violenza contro i neri africani: folle di facinorosi erano scese in strada aggredendo migranti, studenti e richiedenti asilo, decine dei quali erano poi stati arrestati dalla polizia e successivamente espulsi. Secondo il presidente Saied, “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” erano arrivati in Tunisia, “con la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”: una situazione “innaturale”, parte di un disegno criminale per “cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. Vedi: https://www.amnesty.it/la-nostra-accusa-al-presidente-tunisino-kais-saied-discorsi-razzisti-incitano-alla-violenza-contro-i-neri-africani/. Ultima consultazione: 23 febbraio 2024.
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10
Per approfondire l’argomento vedi: https://www.meltingpot.org/2022/08/la-resistenza-delle-donne-migranti-e-rifugiate-al-confine-tunisino-libico/. Ultima consultazione: 24 febbraio 2024.
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Per Sayad la vita sociale è una lotta incessante di percezioni e classificazioni implicate da queste percezioni.
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Editori del dossier
Gustavo Dias, Gennaro Avallone
Publication Dates
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Publication in this collection
12 Aug 2024 -
Date of issue
2024
History
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Received
29 Feb 2024 -
Accepted
24 May 2024